Storia a pedali di un uomo in fuga: Marcello Spadolini

Storia a pedali di un uomo in fuga: Marcello Spadolini, ciclista senza squadra classe 1916 ci racconta i suoi allunghi dalla Garbatella al Pordoi

di Claudio D'Aguanno
(Unità edizione di Roma pag. 5 del 11 aprile 2004)

In letteratura ha ispirato i versi giovanili di Pascoli o Gozzano, la prosa romagnola di Alfredo Oriani, le pagine scanzonate di Guareschi e Gioann Brera o quelle ingenue di Emile Zola che vedeva in lei «la prossima emancipazione della donna». Per Cesare Lombroso era scontato invece bollarla come pericoloso strumento criminale. «Agevola le fughe e fornisce alibi» scriveva l'antropologo tra un ritratto e l'altro di delinquenti abituali, rei immatricolati, brutti ceffi catalogati per via della loro famigerata «fossetta occipitale mediana». Ha conosciuto, tra un secolo e l'altro, divieti «d'ordine pubblico» firmati Bava Beccaris, svariate ostilità prefettizie e poi i coprifuoco antigappisti di Kesserling. Per De Gasperi nel '48 salvò l'Italia dall'insurrezione comunista ma, prima, c'era stato chi, come i futuristi, l'aveva benedetta «nel sacro nome della Patria» e chi, come i socialisti del «fosco fin del secolo morente», esaltata come «rossa e proletaria». Stiamo parlando della bicicletta, macchina a due ruote che va a muscoli e pedali, simbolo di energia libera, d'arte pura, di tempo ritrovato e, soprattutto, di leggende sportive tenaci come la memoria e sempre pronte a sgrillettare via pestando duro per colli e arrampicate lontane. E allora niente di meglio di una fresca giornata di primavera, mentre da Sanremo alle Fiandre si riprende a stantuffare, che parlarne con Marcello Spadolini, classe 1916, ostinato grimpeur di casa al lotto 12 della Garbatella. Fino a qualche tempo fa Marcello era facile incrociarlo, ogni giovedì mattina, a largo delle Sette Chiese insieme ad altri ciclirriducibili in partenza per scarrozzate di novanta e passa chilometri. «Sì è vero - fa l'anziano campione - non me ne perdevo una di queste rimpatriate settimanali ma adesso m'è impossibile. Mica per la fatica della bici. È la preoccupazione delle scale piuttosto. Senza l'ascensore salire tre piani a piedi è come scalare il Pordoi». La sua storia d'amore con la pedivella è lunga e comincia negli anni '30. Sfollato dopo gli sventramenti al Teatro Marcello arriva ragazzo alla Garbatella. Qui frequenta la polvere del Sant'Eurosia e la furia pischella d'un pallone preso a calci. «Non ero niente male come mezzo destro - continua Marcello - e finii al Trastevere. Mi piaceva pure correre e i miei mi regalarono una Lazzaretti. Alla prima gara da esordiente arrivai secondo. Era fatta. Ero diventato un ciclista. E la prima maglia di squadra fu quella dell'As Roma. C'avevo 16 anni e il mio primo direttore sportivo è stato Stinchelli». Da dilettante il curriculum «dell'uomo che fugge», come lo battezza un pezzo sdrucito del Littoriale, è ricco da far invidia: bicampione d'Italia, nel '36 e '37, dei giovani dilettanti davanti a gente come Chiappini, Crippa e Leoni, oltre 125 vittorie tra tappe e trofei, 4 volte azzurro selezionato per il Gran Premio Europa o per i Campionati del Mondo, sesto a Berna nel '36. Era capace di umili sforzi gregari o di fughe lunghe centinaia di miglia come quando sul circuito di Bolsena prese 4' e 35' al secondo. «Beh erano anni - riprende sfogliando l'album - che andavo forte e per questo, senza neanche un ingaggio, da isolato come si diceva allora, mi giocai la carta del professionismo. Senza squadra ho partecipato a due giri d'Italia. Quello del '40 dominato da Coppi e quello del '46 vinto da Bartali. Alla prima tappa, Milano-Torino, sono arrivato dietro Olimpio Bizzi, primo degli indipendenti e maglia bianca al Giro. Nel '46 invece ho collezionato piazzamenti a raffica, terzo all'ultima frazione Mantova-Milano e trentesimo assoluto in classifica generale. Certo, peccato che tra un'esperienza e l'altra ci sia stata la guerra. Ti dico solo che sotto i tedeschi era proibito andare in bici e per tenerci allenati dovevamo farlo da clandestini». Ma non c'è spazio per il rammarico nella narrazione di Marcello e il suo sprint è sempre ingarellato di puro orgoglio. «Passate le bombe c'avevo tanta smania dentro di riprendere a correre che a guerra finita non me ne perdevo una. Una volta svoltai tre gare in una settimana. Ma una classica che m'è rimasta impressa è quella del 25 aprile. Ho partecipato infatti ad uno dei primi Gran Premi di Liberazione. Mi pare quello vinto da Spartaco Rosati o quello dopo. Boh. Quella volta partii forte alla maniera mia, rimasi in testa quasi tutta la corsa, vinsi cinque traguardi, ma poi, manco duecento metri all'arrivo un crampo al polpaccio mi ingrippava il motore. Ancora ci sformo. Era dura la vita dei ciclisti autonomi senza squadra. E lo puoi capire da solo cosa era scarrozza' al giro d'Italia senza manco uno straccio d'aiuto che ti passava la borraccia. Una mano magari, se poteva, te la dava Coppi che era un vero signore. Ma per il resto era tosta. Pensa che la sera quando gli organizzati s'andavano a sistemare agli alberghi a me toccava recuperare la valigia con la robba mia. Me la mettevo sul manubrio e andavo in cerca d'un letto per dormire. A Bologna una volta me so' fatto un'altra tappa da capo prima di trovare una branda. Era capitato che m'avevano dato una pensione sbagliata e, visto che la padrona baccagliava che non potevo restare, dovetti cercarmi un'altra sistemazione. A momenti dormivo sotto i portici. Ma alla mattina ripartivo. Senza bistecche e senza bibbitoni. La droga mia era la frittata con gli spinaci. E tanta passione. Quella che ancora oggi mi fa scattare ogni volta che vedo due ruote correre e che mi fa dire mannaggia l'acciacchi e chi l'ha inventati».
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