Romeo Venturelli Il pastorello che poteva essere campione

Rivista Tuttobici Numero: 9 Anno: 2002

Romeo Venturelli Il pastorello che poteva essere campione

foto di Gino Sala

Non lo vedo dagli anni (lontani) in cui consumavo il mio periodo di ferie ad Alassio. Periodo invernale, a cavallo tra i mesi di novembre e dicembre, quando la Riviera Ligure di Ponente era in ogni senso un angolo delizioso. Non esistevano caloriferi negli alberghi e potevi circolare in giacchetta. Ricordi di trascorsi giovanili, di visioni ben diverse da quelle di oggi, una bella sosta per il cronista che per impegni di lavoro non poteva riposare in estate.

Ebbene, proprio ad Alassio, lungo la via principale attraversata in marzo dalla Milano-Sanremo, ho incontrato Romeo Venturelli. Da quel giorno in avanti non ho saputo più nulla. Non so se conduce ancora una pensione in compagnia della moglie, se tiene famiglia con figli, se tutto va per il meglio, come mi auguro. Nella mia mente è rimasto comunque quell'impatto e quella chiaccherata.

Avevo davanti un uomo tranquillo, senza rimpianti per una carriera ciclistica da poco conclusa e che avrebbe potuto essere ben più gloriosa e remunerativa di quanto è stata. Un uomo che non si lamentava per i suoi trascorsi da corridore, per le sue incertezze e le sue follie, per avere buttato al vento una carriera da favola. «È andata così, doveva andare così», è stato il sunto del suo discorso. Nessun pentimento nelle parole di Meo. Ad un certo punto ci trovammo a discutere d'altro anche perché mi sembrava di essere indiscreto nel chiedere di più.

Sappiamo tutti, ad ogni modo, che il Romeo Venturelli di Sassostorno di Lama Mocogno (Modena), oggi sessantatreenne per essere nato il 9 dicembre del 1938, il ragazzo pastorello sulle colline di casa, possedeva le gambe e il fisico del vero campione. Un tipo alla Merckx, per intenderci, e non esagero. Un passista-scalatore d'eccellenza, capace di imporsi su qualsiasi terreno. Capace di battere Anquetil nelle prove segnate dal tic tac delle lancette come dimostra la cronotappa di Sorrento 1960, quando nella seconda giornata del Giro d'Italia il giovane che difendeva i colori della San Pellegrino andò sul podio per infilarsi la maglia rosa. Era alla sua prima stagione tra i professionisti ed eravamo tutti convinti che il movimento italiano aveva scoperto una nuova stella.

Purtroppo Venturelli appariva e scompariva come nel gioco delle tre carte. Sempre nel '60 si rifaceva vivo aggiudicandosi il Trofeo Baracchi in coppia con Diego Ronchini e concludeva l'annata con cinque vittorie. Poi due stagioni ('61 e '62) con la Molteni senza dare segnali della sua enorme potenzialità. Fermo, inattivo, con la testa chissà dove nel '63 e nel '64. Si pensava che avesse smesso di pedalare e invece torna in sella nel '65 con la divisa della gloriosa Bianchi ed è secondo nel Giro di Sardegna nella scia di Rik Van Looy. Soltanto secondo perché il belga fa capire all'italiano che se si fosse ammansito avrebbe ottenuto un tornaconto economico. È primo nel Giro del Piemonte con un finale devastante per i suoi avversari, è il Venturelli che rialza la voce per poi scomparire.

Nella Bianchi c'è chi ammattisce per Meo che nulla combina nel '66. Idem con la Salamini nel '67, assente dalle competizioni dal '68 al '70, ricomparsa nel '71 con la Zonca e stop definitivo.
«Non c'è con la testa, è un ribelle, uno che non si assoggetta alle regole dell'atleta, che a tavola si nutre con fette di salame e di gorgonzola, donnaiolo "incallito"», si diceva di Meo. E chi pensava di raddrizzarlo con le buone e le cattive si trovava di fronte ad un tipo irremovibile nel suo modo di vivere.

Che dire in conclusione? Che Venturelli ha rinunciato alla gloria e alla ricchezza, questo è certo. Che non ha voluto essere illuminato dai fari della notorietà, che al di là di lampanti dimostrazioni si è chiuso nel suo mondo, nella sua semplicità e nei suoi difetti. Però valutando il tutto mi rimane ugualmente simpatico e lo saluto con affetto.
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