Michele Bartoli, la storia di un campione - 3

Rivista Tuttobici Numero: 3 Anno: 2005

Michele Bartoli: la mia storia - 3a parte

di Alessandra Giardini

La prima vittoria da professionista diventò in fretta le prime tre. In una settimana Michele Bartoli portò a casa due tappe e la classifica finale della Settimana Siciliana: aveva ventitrè anni e capì che la sua non sarebbe stata una carriera qualsiasi.
«Fu una partenza facile, anche per i giornali fui subito un vincente, mi presentai bene a tutti, compresa la mia squadra e le altre. Fu tutto molto più semplice, dopo».
La prima vittoria da professionista in Belgio, al Brabante del '94, «uno degli ordini di arrivo più belli della mia vita». La prima vittoria al Giro d'Italia, sempre nel '94, nella tappa austriaca di Lienz, «eravamo in fuga io e Fornaciari con un gruppetto di quindici, a un certo punto gli altri smisero di tirare e si sentii in tivù che gli dicevamo "andate a casa, vagabondi!", andai via da solo sull'ultima salita e arrivai da solo.
Quella con il tempo più infame, «la tappa di La Panne del '95, io primo e Sorensen secondo, ma anche la Freccia che ho vinto sotto la neve, non è che mi piacesse proprio il brutto tempo, è soltanto che agli altri magari dava più fastidio che a me. Ma quando mi svegliavo la mattina della corsa e vedevo la neve, scocciava anche a me, non credere».
La prima corsa che è andata esattamente come Michele l'aveva immaginata, e preparata nei più piccoli particolari, è stata il Giro delle Fiandre del '96, dominato prima dalla squadra, poi da Bartoli, alla prima grande vittoria della sua carriera.
«Ferretti mi disse: la Sanremo l'hai persa tu, il Fiandre fammelo perdere a me». Fino al Grammont la squadra si mosse a memoria, poi toccò a Michele tirare fuori la sua classe. «Quel Fiandre l'ho vinto io, eh, non vorrei che Ferron si montasse la testa. Feci esattamente tutto quello che avevo in testa».
Si definisce esibizionista, e chi lo conosce fa quasi fatica a crederci. Ma esibizionista, in corsa, lo è stato sul serio. Sempre. Tanto da aver vinto molto meno di quanto avrebbe potuto vincere: si può quasi dire che sia arrivato primo soltanto quando non ha potuto farne a meno, quando era talmente più forte di tutti gli altri da non avere altra scelta.
«Non ho mai capito perché, ma è così. Davvero. Ferretti l'ho fatto diventare matto. Perché quando non mi sentivo al massimo, mi veniva istintivo di tirarmi fuori dalla lotta. Per me vincere così così non esisteva: se vinci, devi dare spettacolo».
Finchè c'è riuscito, lo spettacolo è stato assoluto. La Liegi e la Coppa del mondo per due anni consecutivi, nel '97 e nel '98, la Freccia sotto la neve l'anno dopo. Se non ci fossero stati quegli incidenti a tagliarlo a metà assieme alla sua carriera, Bartoli avrebbe vinto chissà quanto. Magari anche un Mondiale.
«Le corse che ho vinto le immaginavo prima, nei particolari. Spesso la ricognizione del giorno prima è stata un'anticipazione delle emozioni che avrei provato in corsa. Ma se devo essere sincero, il Mondiale non l'ho mai immaginato, neanche una volta. L'ho pensato, sì, e sperato anche. Immaginato mai. Forse perché per fare bene ho sempre avuto bisogno della fiducia più totale, e della squadra. Senza, non sono stato capace di farlo».
Lo sanno bene i suoi direttori sportivi, da Franco Gini «che me lo diceva quando ero ancora un ragazzino: guarda che quando passi professionista vieni a correre con me. Ed è stato così sul serio», ad Antonio Salutini, «un'altra persona indimenticabile nella mia carriera, adesso i giovani non c'è nessuno che li tratti più così, nelle squadre si stava come in una famiglia, e se avevi bisogno di tempo ti davano anche quello, adesso è cambiato tutto in peggio», a Giancarlo Ferretti, «il nostro rapporto non è mai cambiato, soltanto adesso che ho smesso di correre è saltata fuori questa specie di nostalgia in tutti i nostri discorsi, prima invece lui non mollava mai l'osso, era un martello», passando da Serge Parsani, «che ha sempre saputo trovare il modo giusto per caricare me e la squadra, anche con lui ho vinto tanto».
Lo sa anche Graziano, il padre di Michele, che non ha mai rinunciato a dire la sua sulla carriera del figlio.
«Non mi ha mai stressato, ma è sempre stato molto presente. Fino all'anno scorso, cosa credi? Mi prendeva in disparte, dopo la corsa, e mi diceva ma non era meglio...? Non poteva resistere a fare la sua critica».
A proposito di critica, con i giornalisti Michele ha avuto sempre una convivenza pacifica, «non mi sono mai nascosto, e credo di essere sempre stato trattato bene», soltanto nel rapporto con Pantani si è sentito qualche volta messo da parte, o addirittura usato, «mi sembrava che lui fosse l'eroe e io il cattivo, una volta su un giornale saltò fuori addirittura che lo avevo paragonato a Chepe Gonzales, sarà mai possibile?, ma geloso non lo sono mai stato».
Erano corridori diversi, e corse diverse.
«Ma una volta mi sono messo in testa davvero le corse a tappe, anche perché Ferretti credeva ciecamente che avrei potuto cominciare a correrle per fare classifica. Fu dopo il Giro d'Italia del '98, con l'Asics. Poi però mi ruppi il ginocchio, persi quasi due anni e dovetti abbandonare l'idea».
Eppure nessun rimpianto, sembra incredibile.
«Magari mi verranno più avanti, chi lo sa. Per adesso non mi scoccia neanche non aver mai vinto i Mondiali, che pure sono stati quasi una fissazione quando correvo. L'unico rimpianto vero, soprattutto se pensiamo a com'è andata l'anno scorso, al debutto, è non aver provato prima la Roubaix. Per un esibizionista come me sarebbe stata la corsa della vita».
(3 - continua)
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