Marino Amadori

Marino Amadori, merita un posto al sole nella storia del ciclismo romagnolo, anche perché oltre ai buoni successi conquistati nel mondo dei professionisti, è riuscito, con la sua onestà e disponibilità di esemplare gregario, a guadagnarsi fama nazionale ed internazionale. Un dato balza agli occhi e, se ci si pensa bene, ha pochi raffronti mondiali: Marino in tredici anni di carriera fra i prof, è stato ben undici volte azzurro. Chi lo ha superato in questa referenza, sono stati solo quei "super" che han fatto il mito del ciclismo.
E mai le sue maglie azzurre sono apparse regalate, tant'è che un uomo come Alfredo Martini, conoscendo le sue qualità umane, gli ha praticamente sempre affidato il ruolo di suo ambasciatore in corsa. Amadori però, non può essere ricordato solo per le sue maglie azzurre e per quel difficile compito che ha svolto in seno ad una nazionale spesso vincente, come nel 1982, 1986 e 1988, perché lui, le sue belle corse, se le è sapute conquistare e, guarda caso, spesso col piglio del corridore di razza. Cominciò nel 1981, vincendo la tappa di Chianciano alla Tirreno Adriatico, dove conquistò pure la maglia di leader della manifestazione. Solo una delle rare alleanze Moser-Saronni e la crono finale riuscirono poi, a scalzare Marino dal gradino più alto del podio: finì terzo con qualche giustificato rimpianto. Sempre in quell'anno vinse il Giro del Piemonte. Ritornò al successo in una durissima edizione del Trofeo Matteotti nel 1983, dove, ancora una volta, seppe staccare tutti e proseguì con un per lui poco consueto sprint alla Coppa Placci, in cui regolò un drappello costituitosi grazie ad una sua precedente azione.
Amadori, sempre più ricercato gregario di lusso, si prese una giornata per sé alla Coppa Sabatini, nel 1985, giungendo al traguardo in solitudine, come la mancanza di spunto veloce lo costringeva a fare. Nel 1986, un'altra classica nazionale finì nel suo palmares: la Coppa Agostoni. Fu quello, probabilmente, il suo successo di maggior pregio, in virtù di un cast di nota. L'anno dopo, col successo al Gran Premio di Lanciano, ottenuto difendendo coi denti una manciata di secondi conquistati negli ultimi chilometri, chiuse il suo rapporto con la vittoria. Non però la sua carriera, che continuò con onore al servizio del suo ultimo capitano, Maurizio Fondriest, fino al 1990. Amadori avrebbe potuto proseguire, perché il corridore trentino se lo sarebbe portato con sé alla Panasonic, ma il forlivese, già trentatreenne, preferì dire "basta". Restava il solco di un segmento agonistico siamese all'azzurro e col record, relativamente alla Romagna, di 13 partecipazioni al Giro d'Italia, di cui solo in un'occasione senza il conforto dell'arrivo finale. Pur nella discrezione che l'ha sempre accompagnato, un corridore che ha saputo fare epoca. Finito il tratto sul mezzo bicicletta, abbracciò il ruolo di nocchiero sull'ammiraglia, con ottimi risultati. Nel pedale femminile, ha guidato tante delle migliori campionesse del panorama mondiale, su tutte Fabiana Luperini, vincendo a iosa; mentre a livello maschile è stato l'ultimo direttore sportivo dell'indimenticabile Marco Pantani. Oggi è il CT della Nazionale Femminile su strada.
Articolo inviato da: Maurizio Ricci (Morris)
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