Racconto su Giampaolo Verdi

Si nascondeva dietro due lenti che ti ricordavano immediatamente Laurent Fignon, il biondino francese che, dopo i fasti vissuti con Eddy Merckx, m'aveva fatto riscoprire il tifo. Di Giampaolo Verdi non conoscevo nulla, ero appena uscito da tre lustri di vita politica, dove avevo quasi del tutto cancellato, per mera impossibilità, l'interesse verso il mondo dei dilettanti. S'era agli inizi degli anni novanta, quando, finalmente, la mia quotidianità si poté dischiudere su piste, palestre e campi, lasciando agli asfalti lo spazio per narrare quello che in me conviveva dai tempi del triciclo. Già, in tanti anni, il vecchio PCI, mai mi aveva chiesto qualche riga per l'Unità, anzi il mio leggere la Gazzetta, era un distinguo portator di nasi arricciati, ed anche lì, mi resi conto di quanto Berlinguer, l'uomo che più ho stimato, ed al cui cospetto D'Alema, Veltroni e l'ossuto Fassino non superano il l livello di pasta frolla, fosse avanti gli altri. Un giornale quotidiano, le cui velleità erano tali da ambire all'oscuramento di un concorrente il cui nome richiamava il resto di una moneta di poco valore, mi aveva aperto le porte, lasciandomi scrivere tutto quello che volevo: dagli amati asfalti, praterie di "ruote a razze", ai placcaggi; dalla nobiltà dei movimenti del corpo, a quella della scherma pugilistica. Insomma, ero un uomo che dai trentacinque anni, era stato riportato ai venti. Una domenica di quelle che dall'inverno del calendario ti portan dolci carezze primaverili, andai per scrivere sul Circuito dei Monti Coralli, dove era di scena il "Giro Ciclistico Città delle Ceramiche", una classica per dilettanti del faentino. Ai colori ed al fruscio delle ruote mi ero già riabituato dopo anni di ibernazione, alle cadute un po' meno. Il cast di quella corsa era ottimo, perlomeno per quello che avevo capito dai corsi accelerati di conoscenza che mi ero imposto, ma di Verdi il più pieno anonimato. Non così la visione del riscaldamento pregara, dove quegli occhiali alla Fignon, pur collocati su uno sfondo riccioluto e crespo di color castano, mi avevano stuzzicato la curiosità di vedere quella versione italiana del professoressino parigino. Il Verdi era già un anzianotto nella categoria, ma io ancor non lo sapevo. Pedalava davanti e ciò me lo fece immaginare come il classico e comune dilettante, pronto a preparare una sortita anticipata per farsi vedere e poi, ripreso, ritirarsi. In altre parole, dubitavo assai sulla qualità dell'occhialuto. Il circuito, facile, nonostante una salitella, non provocava selezione, ed era fin troppo logico domandarsi come fosse possibile una soluzione diversa da quella del volatone. La giornata, più calda del solito di stagione, incentivò il ricorso alle borracce direttamente distribuite dai classici box immaginari, quel pomeriggio collocati a nicchia fra un mare di folla. Camminai a lungo per cercare una posizione felice all'osservazione di quelle facce, interne e significative, che ogni corridore lancia esterne. C'è sempre un punto che ti fa capire cosa c'è dentro ogni singolo in corsa e quel punto sta quasi sempre nei paraggi dei "borracciai". Trovai finalmente la posizione ideale nelle adiacenze di una curva con l'asfalto in evidente pendenza: una svolta abbastanza spaccaritmo, da preparare bene. Lì, c'erano i rifornitori che avrebbero potuto assistere anche il sottoscritto, così impegnato a parlare, fra richieste e storia, ad ogni intervallo fra un passaggio e l'altro. Certo, parlavo, ma ero pure impegnatissimo ad osservare, soprattutto quei tipi che la povertà dei team, non si poteva permettere professionali, i borracciai appunto. Gente spesso improvvisata, accompagnatori, magari parenti dei corridori, ma non sempre capace di quel gesto "dolce e fermo" che impone il passaggio di una borraccia in corsa. Gesto banale all'apparenza, ma tutt'altro che ovvio. Vidi un tipo con la tremarella ed una borraccia in mano e mi scappò un affermazione: "Quel tizio prima della fine della corsa fa un macello". "Ma dai, non cadrà nessuno" - s'affrettò a rispondermi uno che fino a quel momento s'era bevuto i miei tasselli sulla storia di Eddy Merckx. "Sarà, ma una borraccia piena che rotola in mezzo al gruppo è come una pallottola" - aggiunsi convinto. E così fu. Nel giro successivo, il signore tremolante lasciò la presa del contenitore, ben prima che il suo corridore, in terza posizione, potesse afferrarla e questa cadde rotolando velocemente in mezzo al gruppo. Qualche scarto e poi l'inevitabile impatto con una ruota: era quella di Giampaolo Verdi. La caduta, le sue urla di dolore, nonché la frattura "dell'osso del ciclista": la clavicola. Gli andò comunque bene, perché nessuno gli finì addosso. La ressa impedì al sottoscritto di prendere a male parole l'imbranato borracciaio. Quell'epilogo mi spinse ad informarmi meglio su Giampaolo e le voci d'ambiente mi parlarono di un "cagnaccio", il classico modus tipicamente ciclistico e romagnolo in particolare (vero Cassani?) di definire un tosto, un furbo, uno dalle sette vite. Ed effettivamente, quello che mi si diceva su Verdi, andava dritto nella direzione dell'interesse, perché il ciclismo non è solo campioni o gregari, ma uno spaccato di stravaganze e qualità non sempre collegabili al fisico, specie fra i dilettanti. L'occhialuto bresciano alimentava la mia curiosità, ma il ritmo crescente del mio lavoro in Polisportiva, mi impedì di coltivare con dovizia quella spinta, ma sarebbe arrivata prima o poi, l'occasione d'approfondire.
Nel caldo torrido di luglio '91, per una testata di proprietà d'un uomo che il tetro e sordo destino italico, volle proprio due anni dopo suicida, senza stuzzicar negli investigatori il più che probabile omicidio, mi ritrovai in quel di Sant'Ermete, nel riminese, là dove si correva un'insorgente gara, già classica al punto di radunare una bella fetta del gotha dilettantistico italiano: la Coppa della Pace-Trofeo F.lli Anelli. Un gran bel percorso, duro a sufficienza per far emergere la qualità orizzontale d'un corridore, ben lungi dal solito specialistico, sul quale si stava avviando il ciclismo. Bèh, proprio lì, rincontrai la "rimembranza parigina" di Moniga del Garda, il "cagnaccio" Giampaolo Verdi. Il ragazzo, ormai anziano per la categoria, con già oltre un quarto di secolo alle spalle, ed ovviamente ignaro dell'osservatorio da me elevato, mi rispose nei fatti come meglio non si poteva. Quella faccia da furbetto e quegli occhiali pronti a mimetizzare intenzioni, tattiche e sofferenza, per ergere un tridimensionale dall'odor di biblioteca, furono uno spettacolo di come si può interpretare al meglio una gara, ben sapendo di non aver il patrimonio dei più forti. Tirò le corde dell'intelligenza come gli acuti chitarristici di David Gilmour, il colpo d'occhio d'un tiratore di volo a dispetto della miopia e l'anticipo d'un Andrè Agassi, finendo per immortalarsi in un finisseur ciclistico proprio su quell'emulo che non avevo intuito immediatamente: Jan Raas. E già, dell'occhialuto olandese, aveva riproposto, in versione dilettantistica e minore, la Sanremo '77, andando a vincere accompagnato dall'applauso, poco gradito dai giornalistici romagnoli, del sottoscritto. Parlar con lui a fine corsa: per l'ottica dei taccuini o dei più numerosi piccoli registratori, fu come anticipare di 14 anni l'incontro con Claudio Dancelli, l'architetto. Gli inviai le telecamere orientando le domande per far raccogliere quel personaggio che, per me, l'evidenza partoriva a fiotti. Giampaolo Verdi, in persona, era proprio il Raas della gara: intelligente, scaltro, furbo, depistatore, simpatico, ma pure carognetta come il "cagnaccio" del romanzo ciclistico. Da quel giorno continuò a vincere: quattro corse nel '92, due nel '93, 2 nel '94 e tutte più o meno col fare di quella giornata riminese di luglio '91. Chiuse la carriera nel '95, quando le primavere erano ormai trenta, essendo nato a Desenzano sul Garda il 4 aprile 1966.
Insomma, pur rimanendo nell'incertezza di una possibile stecca, questo coetaneo dell'architetto, può ben essere suo amico: in fondo una base comune, oltre alla geografia, si materializza in quel virtuosismo che entrambi posseggono a iosa. Di Verdi non so più nulla da una decina d'anni e sarei curioso di sapere che fine ha fatto e che fa oggi quell'istrione in bicicletta che da Fignon si spostò in Raas.
Articolo inviato da: Maurizio Ricci (Morris)
©2002-2023 Museo del Ciclismo Associazione Culturale ONLUS - C.F.94259220484 - info@museociclismo.it - Tutti i diritti riservati

I dati inseriti in archivio sono il risultato di una ricerca bibliografica e storiografica di Paolo Mannini (curatore dell'Archivio). Le fonti utilizzate sono svariate (giornali, libri, enciclopedie, siti internet, archivi digitali e frequentazioni sui vari Forum inerenti il ciclismo). Chiunque desideri contribuire alla raccolta dei dati, aggiunta di materiale da pubblicare o alla correzione di errori può farlo mettendosi in contatto con Paolo Mannini o con la Redazione.

Preferenze Cookies - Privacy Policy