Eddy Merckx, a 30 anni da un punto che mai ci sarà......

Lo ricordo oggi perché ieri e l'altro ieri mi è mancato il tempo. Lo vorrei fare come merita, ma le lancette mi sono ancora tiranne. Lo farò così in maniera anomala, nella consapevolezza che ogni giorno che verrà sarà sempre prodigo, se insisterà a monte il potere della riflessione, per capire quanto l'ammirazione e il tifo per le gesta di quest'uomo, si possano sublimare in una incancellabile base di grandiosità. Chi lo conosceva bene, lo dava per scontato, chi, come me, cresciuto sui percorsi dei suoi successi e di quelle essenze che rasentavano la perfezione agonistica, non si dava pace: era un primo segno del tempo che passava inesorabile, anche per un giovane che si avviava ai ventitré anni. Il 18 maggio 1978, Eddy Merckx, non potendo più essere il simbolo concreto e tridimensionale della corsa in testa, del dominio, dell'impronta sulle proiezioni, metteva fine alla sua carriera, per entrare imperioso ed imperiale nell'olimpo ristrettissimo dei leggendari dello sport. Quel giorno era un giovedì, conobbi la notizia attraverso la radio, mentre in automobile tornavo a casa dopo otto ore di fabbrica, già frastornato al pensiero di dovermi sobbarcare la lettura di quella "palla" di Talcott Parsons, per un esame di Sociologia che avrei dovuto sostenere il lunedì seguente.
La vita dello studente universitario e dell'operaio era sostenibile, bastava solo concepire gli studi con la convinzione dell'arricchimento che viene della lettura, senza la pretesa, sempre "cefala" (come diciamo in Romagna), del trenta e/o della lode a tutti i costi, e senza snaturare o uccidere se stessi scansando le passioni, nonché quella voglia di vivere la gioventù, che non è solo la comunque basilare componente dettata dalla mente e dal corpo di una bella donna. Vivevo così, ero nel mio massimo fisico e intellettuale, un leader senza saperlo, ed anche se dopo, giunsi a quei successi per lunghi tratti proporzionali ai chili in crescita costante: mai mi sono sentito sazio e vivo come allora. Vissi, come detto, l'abbandono di Eddy come una rasoiata in faccia, nonostante avessi per settimane e mesi preparato me stesso a quella possibilità. La mia reazione si dipanò per giorni sul filo conduttore della ricerca di emozioni con lo scopo di attenuare il dolore di quella ferita, senza dimenticare gli appuntamenti ed il convivio. Sostenni l'esame senza riaprire quel libraccio, mi lanciai su albe, dì e sere d'amore fisico, con le ragazze con le quali insisteva il reciproco richiamo a darsi senza abbracciare l'ipocrisia di chiamare amore quegli amplessi. Certo, anche con colei che veniva definita fidanzata, per accontentare senza vivere l'imbarazzo ed il fastidio dei sempre presenti (puntualmente evasi) bacchettoni sermoni dell'anima cattolica di mia madre. Ripassai i fotogrammi della carriera di Merckx: quegli scatti, quelle progressioni, quella determinazione, che erano parte fondamentale della mia crescita sportiva. Sì, proprio quella pazzia che mi aveva aiutato a capire anche le volèe ed il rovescio di Ken Rosewall, gli acuti di Tommie Smith, lo scivolamento sull'acqua del crawl di Don Schollander, il dorso di Roland Matthes, il coraggio e l'abilità al volante di Jim Clark, il supremo equilibrio e la sensibilità sul mezzo di Mike Hailwood. Tutti grandi, tutti artisti per me, che avevo visto e concepito fin da piccino lo sport, come una forma espressiva evidente, passionale, persino più profonda ed onesta delle altre. Insomma, una cosa seria per la mia vita, perlomeno sufficiente a parare i colpi, sempre presenti, di un resto su cui l'errare ed il dispregio delle azioni umane, si confondevano con le polveri dell'ipocrisia, nell'illusione di non illudere, o di cambiare l'ordine convenzionale dei colori. Lo sport era il mio pane, il deterrente quotidiano ad un crepuscolarismo crescente che viveva nella politica un lumicino di speranza ulteriore. Eddy, nel mio piccolo universo, s'era dunque eletto a faro, anche nella contemporanea crescita di un'altra figura icona del mio vagare interessato su queste espressività, come Gilles Villeneuve. Per quest'ultimo, quattro anni dopo, nella tragedia di un mito che imprimeva sugli orizzonti come nessuno la poetica del rischio, piansi copiosamente. Non fu così per Merckx: in fondo, per quanto a lui legato, il suo abbandono era nelle cose e, di mezzo, non c'era una vita perduta. Restava l'amarezza, la rabbia del tempo che scorreva, il punto di un supremo che si doveva sciogliere per abbracciare il ricordo, e fu proprio col ritiro di Eddy che capii, quanto fosse importante, anche per me, dare spago al visto attraverso la bicicletta del racconto.
Oggi, a 30 anni di distanza, mi sento di dire che son stato coerente con quella genesi e mi posso lasciare andare al ringraziamento per aver visto e vissuto il massimo e l'impareggiabile dell'universo del ciclismo: la perfezione agonistica e tecnica di Eddy Merckx, l'intelligenza e la forza di Laurent Fignon, la poesia di Marco Pantani. Niente è stato come loro. Tre poli insuperabili ed ineguagliabili che non oscurano o azzerano le qualità e grandiosità degli altri, di cui ho pure scritto e mi sono esaltato. Ma quei tre erano diversi, unici, anche considerando il pingue mazzo di corridori inespressi potenzialmente da leggenda, che molti, soprattutto giornalisti, ignorano, oppure omettono. Tre supremi, punto.
Ma due giorni fa, era l'anniversario dell'abbandono del belga, ed è a lui che mi voglio riferire. Fra le tante discipline sportive che ho seguito e che ancora mi emozionano, un atleta come Eddy Merckx non l'ho mai visto. Più volte mi sono chiesto da dove partire in un confronto interdisciplinare e ad ogni scelta, il finale dava sempre lo stesso risultato: Merckx non è stato solo il ciclista più forte di tutti i tempi, ma il più forte d'ogni sport. Anche qui si levano i metri soggettivi, ma i numeri di questo atleta e le morfologie stesse del ciclismo, non possono tradire: non c'è niente di simile o di paragonabile. Quanto basta per dire che se non fosse stato corridore, anche in altre discipline, magari in maniera meno evidente sarebbe stato protagonista. E le premesse, scomodando la leggenda, nell'adolescenza di Eddy c'erano tutte. Era imbattibile nel podismo, abile nel tennistavolo, fortissimo nel calcio, perlomeno quando la poca volontà di ragionare di squadra riusciva a determinarne la calzatura di scarpe bullonate. Provò per scherzo la boxe, quanto basta per salire sul ring e vincere, in Belgio, l'equivalente italiano di un titolo novizi, o cadetti come oggi si chiamano. Insomma, le stimmate c'erano e pure la sua faccia da cinesino, per i neri e fittissimi capelli sempre tenuti cortissimi ad ornamento di una bocca che esprimeva la smorfia della grinta, aiutavano a caratterizzarne un distinguo agonistico superiore, da predestinato. Poi, l'incontro con la bicicletta, per vincere chiaramente, ma anche seguire più da vicino colei che il ciclismo dovrebbe ringraziare per essere stata decisiva nella permanenza sulla disciplina di un simile fuoriclasse: Claudine Acou. Certo, perché la ragazzina era la figlia di Lucien, un buon corridore dei primi anni del dopoguerra, più bravo su pista che su strada, giunto all'epoca del Merckx ragazzino, al ruolo di Commissario Tecnico della Nazionale belga dei dilettanti. Farsi vedere o interessare Acou, significava per Eddy incontrare più da vicino colei che poi diverrà la sua moglie e la madre dei suoi figli, eletta a quel tempo, come traguardo perlomeno pari a quelli che via via il futuro enorme campione macinava ad ogni spinta di pedali. Diciamolo pure: grazie Claudine! Ricordo quando gli dissi dei meriti grandiosi che andavano alla moglie: lui mi guardò con gli occhi che brillavano, ed il suo faccione s'allargò in un sorriso che non dimenticherò mai. Poi, aggiunse quel "sì", che, per me, proveniente da anni di studi, osservazioni e ammirazione sul suo pianeta, significava una laurea. Quando aggiunsi che stimavo suo figlio Axel, come uno degli sportivi più significativi del presente, per quella dignità con la quale svolgeva la professione del corridore, sottoponendosi ogni giorno ad abissali ed impietosi confronti con l'inimitabile padre, il brillio degli occhi di Eddy, lasciò posto a quella patina lucida che anticipa sempre le lacrime. Sì, il "cannibale sportivo", che la superficialità dei giudizi tinti pure dei per me stupefacenti idiotismi del nazionalismo aveva eletto tale, è un uomo buono, cordiale, generoso; un uomo che non dimentica i valori su cui ha fondato il suo segmento di vita, nonché quei compagni che lo hanno aiutato, i gregari nel gergo ciclistico, con gli atti di un distinguo solidale che sarebbe impossibile, per egoismo e valenza umana, a taluni suoi avversari, superficialmente coperti di giudizi positivi da una sempre grossa fetta di quell'osservatorio capace di diventare, specie se italiano, insipiente popolino. Sì, Eddy Merckx, fuoriclasse lo è stato e lo è anche fuori dalla bicicletta: molti lo sanno, ma l'odio sportivo fa ancora novanta, al punto che in troppi non lo vogliono ammettere. L'Italia, strano e per nulla "Bel Paese", anche qui, si distingue in negativo.
Articolo inviato da: Maurizio Ricci (Morris)
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