Charly Gaul, fra cultura, costume e gloria sportiva

L'immane conflitto della seconda Guerra Mondiale aveva messo in ginocchio gran parte dell'Europa, l'Italia in particolare, arrivata a quel gravissimo evento piena di contraddizioni sociali ed economiche, pagava ancor più di altri paesi, le crepe, le tragedie e le distruzioni di quella crudele testimonianza dell'ignoranza e stupidità umana. L'Italia, in fondo, era uno stato ancora giovane che non aveva avuto il tempo di formarsi compiutamente come nazione. Gli stessi processi sociali, per alcuni aspetti addirittura favoriti dal fascismo, erano poi caduti nelle controversie di quella dittatura; la questione meridionale rimaneva pressante, ed il processo di industrializzazione era ancora flebile e legato in maniera molto eterogenea al territorio. La rinascita del Paese, oltretutto frenata dall'odio lasciato dal conflitto, si scontrava spesso con le ragioni di una politica votata più agli slogan e a visioni manichee, piuttosto che ad una programmazione efficace e territorialmente piena. Anche per questo il processo di emigrazione continuò. Non vi erano più le spinte politiche dettate dalla presenza di una dittatura, ma la ricerca di un lavoro e di una sicurezza. Gli italiani emigravano da tutte le regioni, anche se era ancora il meridione a presentare i numeri più cospicui. In questo contesto, tanto forte fra il 1947 e 1960, il Lussemburgo era una terra simbolo. Si emigrava lì, per andare a guadagnarsi il pane nelle miniere di ferro o nelle industrie siderurgiche, in particolare nella produzione della ghisa su scala industriale. Oppure per offrire braccia ed intellighenzia a quell'edilizia che stava esplodendo nel Granducato. Sono decine e decine le persone, in specie provenienti dalle zone montane dell'Appennino tosco-romagnolo che, in quegli anni, si sono trasferiti in Lussemburgo. Molti sono addirittura rimasti là. Il Granducato insomma, era un punto di riferimento per il lavoro, ed uno sbocco anche per chi ancora non credeva al miracolo economico italiano. E nel nostro Paese, che lentamente si riprendeva dalle crepe della guerra, il ciclismo era uno dei pochi vanti che ancor permanevano. Da Bartali al "campionissimo" Coppi, l'Italietta che nemmeno il "piano Marshall" riusciva ad elevare compiutamente dalle ginocchia e dall'ignavia, sempre divisa all'interno dalle lunghe mani della "guerra fredda" e dall'impervia ed imbecille paura del comunismo orientale, trovava la forza e l'unione nazionale in quello sport, così fortemente radicato e così pronto a testimoniare valori. Il ciclismo era di più di una disciplina sportiva, era una parte degli italiani di allora, l'unico aspetto vincente di un Paese per tutto il resto perdente e supino. La cultura ed il costume di quei tempi, dovevano ovviamente colloquiare e stringere rapporti col ciclismo ed i suoi campioni. In aggiunta, la più grande generazione di giornalisti e scrittori che l'Italia abbia mai avuto, sapeva leggere dello sport della bicicletta, quelle peculiarità e quelle tinte epiche e romanzesche tornite di valori e di significati, che l'han fatto protagonista principale di molti processi d'acculturazione e negli indotti culturali di quei lustri. Potremmo dire che il ciclismo e stato il primo "boom" dell'Italia del dopoguerra, prima ancora del "boom" economico. In quel contesto così attento ai fatti del pedale, l'arrivo sulle scene principali di un giovane lussemburghese dal nome così armonico come Charly Gaul, non poteva passare in secondo piano. In lui si fondeva uno degli apogei di chi cercava lavoro come il Lussemburgo, con lo sport che andava per la maggiore. Il suo stesso modo di correre e di concepire la sua carriera, liberavano altri processi simpatetici. Charly Gaul fu così facilmente adottato dai media di allora, da apparire spesso come un italiano aggiunto. In fondo, era un campione vivo e dotato di alfea luce, quella che il pubblico ha sempre voluto da un corridore: la capacità di attaccare.
Gaul stuzzicava le penne ed i taccuini degli osservatori, perché faceva tutto con naturalezza, sia nelle imprese, sia nelle sconfitte, talune nate da sbadataggini e sottovalutazioni che non si credevano possibili. Aveva modi gentili, anche se non faceva il benché minimo passo per costruirsi personaggio davanti ai media. Piaceva alle donne, ed anche questo alimentava non poco la sua fama, addirittura erano molte le signorine o signore, che lo definivano l'erede di Ugo Koblet. La stessa immagine di Gaul, avvolto in una coperta dopo l'epica impresa nella bufera del Bondone nel Giro 1956, ci consegna un cucciolo su cui gli occhioni azzurri sembrano fari immortali, scolpiti nelle menti e nelle attenzioni di un pubblico attento e voglioso di crearsi nuovi miti, visto l'anagrafico tramonto del "campionissimo" Fausto Coppi. Quell'immagine ha lungamente fatto capolino nei giornali dell'epoca, ed è tutt'oggi estremamente significativa. Gaul era divenuto uno di noi tutti, ancor prima di prendere per mano la storia agonistica che l'ha definito "un grande". Ma il sangue blu della celebrità e dell'immortalità che lega all'unisono l'impresa sportiva alla cultura ed al mito, l'ha data il suo essere specialista del pezzo pregiato del ciclismo, la montagna. Il suo stile sui pedali pareva accarezzare l'asprezza e la fatica delle pendenze, trasformando le salite in un quadro dipinto sulle ali delle più profonde bellezze che sono donate ad un uomo: l'orizzonte di un'alba e di un tramonto, o di una montagna in cui roccia e neve si mescolano con solare infatuazione. Come Coppi, Gaul ha sicuramente spinto le fantasie, uscendo dalla pura enunciazione agonistica, per prendersi gli istmi del personaggio, anche se delle leggi che creano la concezione che abbiamo del "personaggio", non aveva nulla. Non si cercava, non si vendeva, era così e basta. Erano gli altri che lo traducevano. Se poi avesse fatto qualcosa di volontario per sposare i media, chissà dove sarebbe arrivato il suo mito. Ma Charly Gaul amava la concretezza del suo spingere i pedali e il gusto inconscio dell'impresa, verso quelle montagne cui non si vedevano le cime, offuscate dalla nebbia o dalle stesse nuvole, imprimendo sull'aria l'armonia dettata dal suo nome. Non lo fermava niente, nemmeno quando l'agreste ed il silvestre dei monti si annodavano per ricevere naturali intemperie, ed il paesaggio spariva per mordere recondite ed umane paure, anzi, era proprio quello il suo teismo. Portarlo sulla terra per applaudirlo, è stata una delle più grosse imprese mai fatte da quelle migliaia e migliaia di persone che inneggiavano, grazie a lui, la straordinaria forza che può stare all'interno di un corpo umano. Semplicemente perché sulle montagne, fra pioggia, neve e freddo, Gaul s'involava come una rondine a primavera, dimostrando a tutti che si può. Forse erano i suoi occhi azzurri a vedere così lontano, ed a sciogliere nebbia e nuvole. Spesso al suo passaggio tutto s'inteneriva, perché quell'impervia natura per gli umani, lo conosceva come profeta, senza che nessuno potesse notarlo. Ripeto, il suo era un originale teismo, nel senso più antropologico. Un vero "Angelo della Montagna".
Articolo inviato da: Maurizio Ricci (Morris)
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