Enrico Brusoni

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Di media statura, ben muscolato ma senza eccedere, folta capigliatura nera con tendenza a calare sugli occhi, arditi baffi neri che porterà tutta la vita, si presentava al via delle corse, fossero su pista o su strada, fasciato da un aderente maglia nera a maniche lunghe su calzoncini al ginocchio, anch'essi neri. Se Gerbi era il "diavolo rosso" di quegli anni a cavallo di due secoli, Brusoni avrebbe potuto bene essere il "diavolo nero", ma nessuno pensò a quel nomignolo, dal momento che già lo portava il piccolo e popolare Romolo Buni. "Atleta eclettico capace di imporsi nelle diverse specialità della pista, dalla velocità al mezzofondo, e nelle più dure corse su strada", ecco le caratteristiche salienti del giovanotto. Ma era anche furbo, Brusoni, svelto di pedivella e di cervello. E ce ne voleva di scaltrezza per farsi largo nelle volate, in quegli anni a cavallo dei due secoli passati. Tempi duri per chi correva in bicicletta. "C'erano le botte segrete, i passaggi a livello addomesticati, le bevande amare, le coltellate nelle gomme, i chiodi, i colpi assassini che ti facevano stramazzare lungo e disteso per terra".

La sua presenza in questa breve galleria di "gente comune", passa attraverso la vittoria ottenuta nella corsa a punti ai Giochi di Parigi del 1900, quando dall'inestricabile matassa di gare olimpiche o campionati internazionali, pare emergere una insondabile affermazione che ne farebbe il secondo italiano a laurearsi campione olimpico, il primo nel ciclismo. Ma senza che lo sapessero né lui né i suoi contemporanei. E neppure quanti, per oltre un secolo, si sono occupati in Italia di ciclismo. Una laurea che si deve a una ricostruzione un po' accademiche, ma che si prendono per buone con la speranza che non siano confuse le intenzioni con le verità storiche. Resta la circostanza che Brusoni a Parigi - nel 1900 - ci andò veramente e altrettanto vero risulta che si impose nella "Course de Primes" precedendo largamente il tedesco Karl Duill e il francese Louis Trousellier. Non fosse che per questo merita che se ne ricordino brevemente le vicende sportive.

Venuto casualmente alla luce ad Arezzo, dove il padre si trovava come ingegnere delle Ferrovie, Ernesto Mario Brusoni detto Enrico si trasferisce giovanissimo a Bergamo dove trascorrerà il resto dei suoi giorni. L'amore per le corse nasce negli anni dell'adolescenza, quando con la bici di famiglia inizia ad avventurarsi sulle strade della Brianza. Figura tra i fondatori del "Velo Cub Orobia" del quale, diciassettenne, viene eletto consigliere. Intanto sulla pista del ciclodromo bergamasco inizia a destreggiarsi sia nella velocità che nelle corse dietro motori, ma riesce a vincere anche qualche corsa su strada.

Nel 1900, allo scavallare del secolo, ecco il giovanotto spingersi fino a Parigi per partecipare al campionato mondiale dilettanti di velocità su pista. Viene eliminato dal belga Léon Didier-Nauts, che poi conquisterà il titolo, ma vince la prova internazionale ad handicap battendo l'americano John Lake, secondo nella corsa mondiale, e il francese Chaput. Di quel buon momento, Brusoni approfitta per tentare il record mondiale del mezzofondo. Sul mezzo meccanico, una ingombrante "Triplette", sale il milanese Ettore Bugatti, lo chauffeur che in seguito darà il nome a una celebre linea di auto di lusso e da corsa. Il tentativo ha pieno successo: il cronografista Gilbert Marley, l'inglese che introdurrà il cronometraggio sportivo in Italia, segnala che allo scadere dei 60 minuti Brusoni ha percorso km 51,783, risultato straordinario per quei tempi.

Dopo aver vinto, nel 1901, il titolo italiano di velocità dilettanti che gli era sfuggito per poco l'anno prima, convinto a pieno dei propri mezzi, decide il contemporaneo passaggio al professionismo e alle corse su strada. Così il 20 giugno del 1902 si schiera alla partenza della "Gran Fondo" che per 540 chilometri va da Milano a Torino attraversando tutta la padania. Una collisione tra i due favoriti, Gerbi e Buni, gli spiana la strada e Brusoni ne approfitta per aggiudicarsi la corsa in volata. Chiude la stagione conquistando ancora il titolo di velocità, ma stavolta da professionista, superando Restelli e Singrossi.

E siamo giunti all'anno 1904 quando ottiene la sua vittoria più clamorosa, in una affollata "Gran Fondo" che vede al via 73 concorrenti sulla distanza di 600 chilometri. La cronaca riferisce che la corsa parte alle ore 16,30 del 16 luglio. Da Milano si va fino a Bologna, poi si risale verso Verona, prima di voltare di nuovo in direzione di Milano. Su quelle strade bianche è facile forare. Capita anche a Brusoni che si ingegna di cambiare la ruota con il romano Alfredo Sartini, detentore del record delle 24 ore: non si potrebbe, pena la squalifica, ma l'operazione è conclusa con la promessa di un pollo e di una parte consistente del premio finale. La fatica è tremenda. Via via cedono quasi tutti, si ritirano Gerbi e Rossignoli, mentre Brusoni, superata una crisi per la stanchezza e la sete, si presenta con i primi al "Trotter".

Questa è la cronaca che ci è stata tramandata: "Era sera quando avvenne l'arrivo, il più epico di tutti gli arrivi delle corse ciclistiche italiane. Un commissario ebbe il lampo di genio di fare un falò di tutti i manifesti e le carte che erano serviti per la riunione motociclistica del pomeriggio, proprio quando un gruppo di dieci uomini irrompeva sulla pista. Fu un volatone di ombre, di sudore, di fango, di grida. Nessuno vide nulla sino ai duecento metri, mentre la tromba dell'ultimo chilometri continuava a suonare. A cento metri si distinse Cuniolo, poi De Rossi, poi un'ombra, poi il resto. A 50 metri l'ombra prese corpo, si fece avanti a tutti con la testa sotto il manubrio, era la maglia nera, era lui". Brusoni precede di mezza ruota Sivocci, poi nell'ordine Cuniolo, Pavesi, Albini. Tempo impiegato: 28 ore 37'05"! Intascò le 1000 mille poste in palio per il vincitore, e altre 1000 gliele regalò la casa costruttrice della bicicletta. La storia non dice se una parte di quel tesoretto finì o meno nelle tasche di Sartini, il quale tuttavia si astenne dal reclamare per quel provvidenziale cambio di gomma.

Fu quella anche l'ultima sua affermazione importante. Con alterne fortune, Brusoni seguitò a correre almeno fino allo scoppio della guerra. Poi, per molti anni ancora, proseguì ad occuparsi di ciclismo come D.S. delle società bergamasche, lentamente dimenticato. Né lui né i suoi contemporanei seppero mai di quella vittoria in una corsa ... olimpica.