Michele Bartoli, la storia di un campione - 1

Rivista Tuttobici Numero: 1 Anno: 2005

Bartoli, la storia di un campione - 1

di Alessandra Giardini

Ha scelto una mattina di fine novembre, quando i corridori hanno ormai esaurito le vacanze e vanno in ritiro con le loro squadre a gettare le basi per un'altra stagione. Ha convocato i giornalisti in un albergo di Milano e ci ha messo pochi minuti per dire quello che tutti avevano paura di sentire. Smetto, non posso più correre, non ha più senso. Poche parole e il ciclismo si è ritrovato senza uno dei suoi protagonisti più veri. Uno che ha avuto in dono la classe ma la pace no, quella mai. Se fosse stato diverso, magari avrebbe vinto di più. Ma non sarebbe stato Michele Bartoli, e allora che gusto c'è? Quando ha vinto - il Fiandre, le Liegi, la Freccia, l'Amstel, il Lombardia, le coppe del mondo - lo ha fatto con l'apparente facilità di chi è superiore. Tutte le volte che non ha vinto - le Sanremo, ma soprattutto i Mondiali - gli è rimasta la rabbia di chi crede che il talento dovrebbe bastare. Ci mancherà un fuoriclasse, c'è scritto sulla targhetta d'argento che gli ha regalato Zazà Zanini assieme al chiodo a cui attaccare tutta la carriera. Una carriera che comincia quando Michele Bartoli viene al mondo, alla fine di maggio del 1970, a Pisa.
Il successo di Dancelli alla Milano-Sanremo era ancora abbastanza acceso nella testa di Graziano Bartoli, che la malattia della bicicletta ce l'aveva da tutta la vita. Quando portò sua moglie Simonetta all'ospedale con le doglie, Graziano decise che se fosse stato un maschio l'avrebbe chiamato Michele come Dancelli.
«Mi è andata bene. Pensa se la Sanremo l'avesse vinta Gimondi. Mi sarei chiamato Felice, io che sono sempre così incazzato». Graziano correva e vinceva, era un corridore non troppo diverso dal Bartoli che abbiamo conosciuto noi, suo figlio: bravo nelle volate ristrette, magari un po' meno veloce ma un po‚ più forte in salita. Doveva passare professionista, con Bitossi, ma in una delle ultime gare da dilettante una macchina lo prese in pieno: rimase qualche giorno in coma, e quando si sveglio capì che avrebbe fatto il falegname, non il corridore. Suo padre aveva fatto il boscaiolo tutta la vita, e Graziano ci sapeva fare. Aprì una bottega per conto suo e si mise a costruire mobili, di quelli per le barche. Ma appena aveva mezzora libera prendeva la bicicletta e andava a pedalare lì attorno.
Lì è San Giovanni alla Vena, e la tradizione vuole che sotto il paese ci sia un vulcano spento da cui cola una sottile vena d'oro. Un talento nascosto, come la passione di un ragazzo che non ha potuto fare il corridore e appena ha avuto un figlio gli ha regalato una bicicletta, convinto che la vita l'avrebbe risarcito così. Michele aveva due anni e una Graziellina bianca da donna. «Però la camuffai subito con un manubrio da corsa».
Non ricorda di aver mai avuto le rotelle. «Sono sempre caduto poco. Forse mi sarebbero servite dopo, da professionista. Non sono caduto molto, dopo, ma sempre bene: andavo in terra e mi rompevo».
La prima corsa vera la mette su Graziano nel piazzale su cui affacciano la sua casa e quelle dei suoi fratelli. La chiama «giro dei macelli» e i corridori sono suo figlio Michele e i suoi nipoti, Elisabetta e Massimo.
«Mia cugina era fortissima, una volta in una corsa vera abbiamo staccato tutti e siamo arrivati io e lei». Michele comincia a vincere subito e non smette mai. La prima squadra ce l'ha a otto anni, da Ivano Fanini, che lo fa correre con una della sue bici, verde. Le prime due gare Michele arriva secondo, e il primo è sempre un certo Chiellini.
«Ha corso fino ai dilettanti, eravamo assieme anche da militari, nella compagnia atleti, poi ha smesso». La terza domenica si corre a Fornacette, per Michele è una trasferta di cinque chilometri. Il percorso è un vialone largo, con le aiuole in mezzo, da fare avanti e indietro. «Arrivai da solo. Quando ero piccolo vincevo quasi sempre così, per distacco. Sembravano delle crono individuali. A Fornacette mi diedero la coppa e i fiori. L'emozione fu la stessa delle mie vittorie da grande: mi sembrava una cosa normale. Mio padre si arrabbiava perché quando arrivavo non alzavo mai le braccia, mi aspettava al traguardo col fotografo e mi dicevano di alzare le braccia, ma a me non andava, non lo facevo quasi mai».
La mattina c'era la scuola. «Mai avuto problemi, mi bastava stare attento per dire qualcosa quando mi interrogavano, parlavo, parlavo, me la cavavo, a casa però non ho mai aperto libro». Il pomeriggio era dedicato al gioco. «In bici al massimo un'oretta, non ho mai corso tanto. E anche di gare ne facevo poche, mio padre preferiva così. Giocavo con i miei amici, soprattutto a pallone. Onestamente ero piuttosto bravo, e mi divertivo moltissimo. Il ruolo? Macchè ruolo, correvo avanti e indietro come un forsennato».
E poi c'era il chiodo fisso della bicicletta: Graziano era convinto che suo figlio avrebbe fatto il corridore, e Michele non ha mai pensato ad altro.
«Mi allenavano lui e Alberto Pazzini, uno che aveva una squadra a San Giovanni: non ho mai corso per lui eppure mi seguiva sempre». Michele correva per Fanini, che alla fine dell'anno gli dava un premio in soldi, e volle che sulla maglia di Bartoli ci fosse sempre il suo nome, anche quando andò a correre per altre squadre. «C'era scritto Fanini e pasticceria Masoni: era la maglia rossa e grigia della Montecarlo». Siccome vinceva praticamente sempre, erano tante le squadre che avevano provato a ingaggiarlo: lui scelse la Montecarlo, e la ragione era piuttosto seria. «Mi diedero una paccata di soldi, ma quello lo seppi dopo. Decisi per tutt'altro motivo». Era l'86, era appena arrivato secondo a una corsa, e vide una ragazza mora lì al traguardo. Chiese al suo amico Daniele Celli, e questi gli rispose che era la figlia di Ferruccio Ciuffaldi, il direttore sportivo della Montecarlo. Così Michele decise che avrebbe corso per lui. Quella ragazza si chiamava Alessandra, e in questa storia avrà una parte importante.
(1 - continua)