Gino Bartali, l'ultimo scatto

Rivista Tuttobici Numero: 6 Anno: 2000

Bartali, l'ultimo scatto

di Stefano Fiori

Bartali, partiamo dall'inizio...
«Tutto cominciò al tempo in cui frequentavo le scuole elementari. Allora i primi tre anni di frequenza erano obbligatori e decisi insieme ai miei genitori che avrei continuato fino alla quinta classe, per avere poi delle migliori possibilità di trovare un lavoro decente. Poiché a Ponte a Ema non esistevano classi oltre la terza, fui obbligato a "scendere" verso Firenze. Per tale motivo l'acquisto di una bicicletta, per coprire il tragitto di circa sei chilometri, divenne necessario. Mi appassionai subito alla bici e presto diventai apprendista meccanico presso il negozio di Oscar Casamonti».
Cosa fece scoccare la scintilla che la portò a cimentarsi nel ciclismo agonistico?
«Lavoravo tre giorni alla settimana da Casamonti e la sua bottega era frequentatissima da ciclisti dilettanti. Fu inevitabile cominciare a misurarsi con qualcuno di loro e in breve mi capitò anche di riuscire a staccare in salita, sui colli attorno a Ponte a Ema, qualche ciclista di discreta reputazione. Casamonti si era accorto di questo e volle mettermi alla prova. Un giorno organizzò una gara non ufficiale alla quale ci presentammo in una trentina, lui compreso. All'inizio fu divertente e l'avevamo presa per una sorta di scampagnata... poi cominciarono le salite e qualcuno si staccò. Ad un certo punto Casamonti, che aveva scelto un percorso duro e che teneva un'andatura impressionante, si voltò e - quale meraviglia per lui! - si accorse che io ero l'unico a essere rimasto alla sua ruota. Avevamo già percorso una novantina di chilometri...».
E dopo questa giornata "storica"?
«Debuttai ufficialmente nel luglio del 1931, a 17 anni. Fu proprio il giorno del mio compleanno, il 18 luglio, che papà Torello mi diede il permesso di partecipare alla gara per Allievi che si sarebbe disputata a Rovezzano, alla periferia sud-est di Firenze. Casamonti mi preparò la bicicletta fino alle 22 della sera della vigilia. E il giorno dopo staccai tutti, all'arrivo in salita, vincendo alla grande. Ma la mia gioia fu di breve durata perché fui squalificato, avendo compiuto 17 anni alla vigilia della corsa. Di conseguenza non potevo più gareggiare fra gli Allievi, categoria che comprendeva allora i ciclisti da 14 a 16 anni. La vittoria andò così a Cino Cinelli, un altro futuro grande campione del ciclismo toscano, che quel giorno si era piazzato secondo alle mie spalle».
Come si svolgevano i suoi allenamenti, in quel periodo?
«Possedevo una bici da turismo con un solo rapporto, il 48 x 16! Spesso andavo fino a Castelfiorentino di Empoli, dove risiedeva la famiglia di mio padre. Altre volte mi allenavo nel Mugello, l'altopiano dove era nata mia madre Giulia. Non si trattava di allenamenti specifici, ma sul mio percorso trovavo parecchie salite e fu allora che capii che la montagna era il terreno che prediligevo e che più si adattava alla mie caratteristiche tecniche».
Suo fratello Giulio gareggiava già, a quel tempo?
«Sì, e più di me aveva caratteristiche per diventare un eccellente atleta, veramente completo. La sua morfologia fisica era ideale per praticare il ciclismo e si trovava a suo agio sui percorsi più svariati. In famiglia tutti vedevano per lui un grande avvenire nel ciclismo e la sua morte fu uno shock enorme per tutti noi, purtroppo».
Ci può ricordare le tragiche circostanze nelle quali scomparve?
«Giulio fu vittima di una caduta il 15 giugno 1936, durante il Campionato Toscano dilettanti. Fu urtato da una vettura e si ritrovò con la frattura della clavicola sinistra. Portato subito all'ospedale di Firenze, subì un intervento chirurgico che gli causò una grave e copiosa emorragia. Ventiquattro ore dopo cessò di vivere, lasciandoci tutti nello sconforto più profondo. Alcuni giorni dopo la tragedia, i miei familiari seppero che i dottori che lo avevano operato avevano commesso un errore, risultato fatale. Questo fatto non sono mai riuscito ad accettarlo... Era mio fratello minore. Nel '36 aveva già vinto sei gare tra i dilettanti, prima di quel campionato toscano; era il numero uno in Toscana e nella corsa di Castelnuovo dei Sabbioni, presso Arezzo, aveva distanziato il secondo di oltre dieci minuti. Fu una tragedia che segnò la mia vita».
Durante le sue prime gare trovò il suo primo grande rivale, il pratese di Montemurlo Aldo Bini.
«Più che un vero rivale Aldo fu sempre un grande amico. La sua scomparsa, avvenuta nel giugno del '93, mi fece molto male. La nostra rivalità fu in parte esagerata da certi giornalisti dell'epoca: faceva vendere più giornali e rendeva più popolare il ciclismo. In corsa Bini era veramente scaltro, non cattivo come altri nostri colleghi. Durante tutta la mia carriera ho sempre saputo riconoscere gli avversari "gentiluomini" da quelli scorretti e invidiosi e per tutta la vita, fuori e dentro lo sport, ho sempre lottato con ogni mezzo contro gli individui identificabili in questa seconda categoria».
Ricorda qualche aneddoto riguardante la sua rivalità con Bini?
«Ci fu un periodo durante il quale non prendevo il via nelle gare che vedevano Bini alla partenza. Telefonavo agli organizzatori - o facevo telefonare da qualcuno del mio entourage - delle corse la sera prima chiedendo se il povero Aldo figurava o meno tra gli iscritti e quindi lo evitavo con cura. Troppo spesso mi batteva in volata, al termine di gare combattutissime dove mi ero dannato l'anima per staccarlo! Le volate faccia a faccia con Bini erano diventate per me un vero incubo. Tra i professionisti le cose poi, fortunatamente, cambiarono: Aldo era più vulnerabile sulle distanze lunghe e in salita e poi, a causa dei suoi successi "amorosi", si allenava poco. Mi capitò così di batterlo allo sprint in un Campionato d'Italia o in una Coppa Bernocchi. Che soddisfazione: lo scaltro allora fui io e potei assaporare finalmente la rivincita su colui che era stato la mia bestia nera tra i dilettanti».
Più tardi i duellanti cambiarono: da Bini-Bartali a Coppi-Bartali, il match che divise in due fazioni l'Italia sportiva. Cosa pensa di questo?
«Tengo subito a precisare che la mia rivalità con Coppi fu solo sportiva. Fuori dalle gare rispettavo le sue idee e il suo modo di vivere, anche se - a causa delle mie convinzioni morali - non lo approvavo del tutto. In effetti avevo uno stile di vita totalmente differente dal suo, ma ciò non mi impediva di nutrire una sincera stima nei suoi confronti. Furono alcuni dei suoi tifosi e anche dei suoi amici che, nel corso degli anni, diventarono i miei nemici più accaniti! Queste persone avrebbero desiderato che, a causa della schiacciante supremazia di Fausto nei miei confronti, mi fossi ritirato dalle competizioni assai prima di quanto poi feci. Tuttavia Fausto - che era molto intelligente - sapeva bene che senza la mia presenza molte delle sue vittorie avrebbero perso quell'aurea di leggenda che avevano acquisito. Nonostante il peso degli anni Bartali rimaneva Bartali, la mia reputazione restava intatta in Italia e all'estero. Quando Fausto vinceva era un nuovo capitolo scritto della nostra famosa rivalità. Le nostre lotte, i nostri attacchi, le nostre crisi e le nostre grandi vittorie fecero la fortuna dei mass-media dell'epoca. Questa memorabile rivalità fece diventare il ciclismo il primo sport, quello più popolare, dopo la seconda guerra mondiale».
Qualche anno fa lei non ha apprezzato lo sceneggiato della RAI girato sul vostro duello con Sergio Castellitto e Ornella Muti tra gli interpreti.
«È vero. Si è voluto solo evidenziare l'aspetto "scandalistico" della vita di Coppi e della nostra rivalità. Avrei gradito che gli autori dello sceneggiato avessero avuto noi ciclisti dell'epoca come consulenti per la realizzazione. Io non sono stato interpellato per dare alcuna opinione al riguardo. Eppure la mia figura era presente in più parti della fiction e non mi sono rivisto per niente in essa. E poi non mi piace che la vita privata di una persona sia messa in piazza... Non vorrei che mi accadesse lo stesso, dopo la mia morte, se qualcuno volesse girare uno sceneggiato su Gino Bartali».
Ma Coppi è stato veramente il più grande, come molti sostengono?
«Alla sua epoca non mancavano i grandi campioni. Così come fece Fausto, anche altri realizzarono grandi imprese. Da parte mia ritengo di avere regalato molte gioie ai miei tifosi. La storia di Fausto sembra una leggenda, ma sarebbe un errore minimizzare il valore degli avversari che incontrò. Fausto non fu l'unico fenomeno del suo periodo. Fu forse il più grande tra quei fenomeni che il destino mise uno di fronte all'altro in quell'epoca dorata. Talora i giornalisti dimenticano quella situazione, coltivando il "culto" di Fausto, il Grande Airone, soprattutto in funzione della sua morte prematura e della sua esistenza romanzesca, vissuta in modo intenso nel bene e nel male».
Secondo lei, la stampa parteggiava troppo per Coppi?
«Non fu mai un mistero che la maggior parte dei giornalisti dell'epoca apprezzassero maggiormente Coppi. Lui era più giovane
di me e, al termine della guerra, sembrava più adatto di me a risollevare il prestigio sportivo dell'Italia. Tuttavia bisogna riconoscere che durante i suoi cinque ultimi anni di gara Fausto ha vinto molto poco. Al contrario di quanto mi accadde. A 38 anni suonati sono ridiventato campione italiano e ho vinto delle "classiche" di importanza nazionale. Come molti altri buoni ciclisti del periodo ritengo che i giornalisti valutassero poco le vittorie ottenute dagli avversari di un Coppi ormai avviato sul viale del tramonto. Un solo scatto in salita di Fausto, anche senza un esito positivo, faceva notizia, mentre la vittoria di qualità di un suo avversario passava in secondo piano. Era irritante vedere il risalto così scarso dato alle vittorie degli altri. Penso per esempio a Rik Van Steenbergen, un vero grande campione che, a torto, era troppo spesso considerato solo un grande velocista. I suoi successi, anche ottenuti su Coppi, non avevano il risultato che meritavano. Fausto, lo ripeto, fu un grande campione ma gli altri non meritavano, da parte dei mass-media, quell'ostracismo troppo spesso sospetto».
Insomma, dietro alle imprese di Coppi ci fu tanta letteratura...
«Prendiamo la famosa tappa Cuneo-Pinerolo del Giro d'Italia '49. Si tratta di una delle imprese più memorabili di Fausto. Quando Coppi attaccò io fui messo ko da una maledetta foratura. La vettura del nostro meccanico impiegò parecchi minuti per raggiungermi e sostituire la ruota. In seguito ho superato il Sestriere con il deragliatore rotto, dopo che un tifoso troppo entusiasta mi aveva gettato un mazzo di fiori tra i raggi delle ruote. Quel giorno la malasorte mi accompagnò costantemente. La stampa usò dei termini ditirambici per il volo di Fausto e quasi non parlò dei miei problemi. Senza quella sfortuna forse avrei potuto accompagnare Fausto nel suo "volo" fino a Pinerolo, chissà. Ma di questa possibilità nessuno parlò».
Quale messaggio invierebbe, oggi, ai giornalisti filo-coppiani?
«Purtroppo certi scribacchini non hanno mai capito che evidenziando maggiormente le grandi qualità e le imprese degli avversari di Coppi avrebbero contribuito a rendere ancora più bella la leggenda di Fausto. Sono persuaso che lui non apprezzasse molto certi commenti della stampa che annichilivano i suoi avversari. Lassù, in cielo, Fausto approverebbe quello che sto dicendo. Ma lui era comunque grandissimo».
Quali il giorno più bello e quello più brutto della sua carriera ciclistica?
«Il più bel ricordo della mia carriera è legato alla mia prima vittoria nel Giro d'Italia, nel 1936. Questo successo mi regalò una gioia immensa che fu però presto dimenticata a casa della morte di mio fratello Giulio, avvenuta solo quattro giorni dopo il mio trionfo nel Giro. Solamente 23 anni dopo mia madre mi disse che Giulio era morto a causa di un grave errore dei medici che lo avevano operato. La più grande impresa della mia carriera è però la vittoria al Tour de France 1948, che dominai letteralmente. Questo successo assunse in Italia un grande significato anche dal punto di vista politico. La penisola era nel caos dopo l'attentato a Palmiro Togliatti, il leader del partito comunista italiano. La mia seconda vittoria al Tour, ottenuta a 10 anni di distanza dalla prima, riuscì a distogliere l'opinione pubblica da quel grave fatto di sangue».
Ricorda altri aneddoti felici o tristi?
«Nel 1946 ho un bel ricordo della federazione ciclistica belga che si batté affinché, dopo la guerra, l'Italia potesse rientrare nell'UCI e partecipare così al campionato del mondo della "ripresa" post-bellica. I belgi con il loro voto fecero sì che noi italiani si potesse correre, in Svizzera, il mondiale su strada. In quel periodo la Svizzera mi portava bene: vinsi infatti il Campionato di Zurigo, i GP di Oerlikon e Bassecourt e soprattutto il Giro di Svizzera a tappe, da dominatore. Dopo la tragica parentesi bellica, questo ritorno dell'Italia nello sport a livello internazionale fu un momento molto significativo: tornavamo a far parte dell'Europa».
Le sue qualità tecniche sono sempre state solo quelle di uno scalatore?
«La volata era il mio punto debole, ma solo in piano. Ero considerato una specie di "velocista da salita" e durante gli arrivi in quota potevo fare degli sprint veri e propri che duravano anche un chilometro. Mi è successo di vincere ad un arrivo in salita con un minuto di vantaggio dopo essere scattato e avere lasciato gli avversari a soli 500 metri dal traguardo. In pianura solo Coppi mi era nettamente superiore. Con gli altri me la giocavo sempre, potevo considerarmi sufficientemente "completo"».
Quali furono i suoi gregari ed amici?
«Luciano Maggini fu il mio compagno di squadra più prezioso ed esperto. Spesso mi incitava a rimanere passivo alla ruota di Coppi, per innervosirlo. Ma fare questo non mi piaceva, non volevo essere considerato un succhiaruote. Tuttavia questa tattica era utile per permettere a Maggini, veloce allo sprint, di vincere delle gare a danno dei nostri grandi nemici della squadra Bianchi».
E tra i ciclisti stranieri, chi stimava maggiormente?
«Rik Van Steenbergen e Brik Schotte furono due grandi campioni e soprattutto due grandi amici fuori dalle corse».
Come mai lei non ha mai vinto un campionato del mondo?
«I campionati del mondo del dopoguerra erano delle vere e proprie kermesse. Perciò non mi sono mai preparato a fondo per questo appuntamento. Erano in troppi a poter vincere la gara iridata. E se, come successe a Valkenburg, il circuito era adatto a me, mi trovavo poi con quattro rivali accaniti nella squadra nazionale italiana. Il termine di squadra, per noi italiani, era del tutto fuori di luogo, in quell'epoca. Binda, il ct azzurro, pretendeva troppo spesso che io facessi il gregario per altri, al mondiale. Nel '46 ero in gran forma e avevo vinto una serie di belle gare in Svizzera (avevo bisogno di denaro, dopo gli stenti patiti in guerra) ma sul circuito iridato di Zurigo fui costretto ad un ruolo di secondaria importanza».
Ma il ciclismo ha reso Bartali un uomo ricco?
«No. Io faccio parte di quella cerchia di ciclisti che hanno corso e vinto tantissimo ma che non si sono potuti arricchire. Ho abbandonato l'attività nel 1954, un anno prima che la RAI iniziasse ad interessarsi al ciclismo favorendo così una massiccia affluenza di nuovi sponsor che portarono una valanga di denaro al ciclismo italiano. Anche in questo caso sono stato sfortunato e ho perso una grande occasione».
Perché decise di finirla con il ciclismo nel 1954?
«Non solo per motivi anagrafici. Il ciclismo in quel periodo era diventato sporco. Erano di moda le spinte organizzate sulle salite, tali e tante da falsare certi risultati. Mi facevano rabbia tanti campioni o pseudo tali che si facevano aiutare in questo modo scorretto».
Qual è la gara che avrebbe voluto vincere più di ogni altra?
«Il campionato del mondo disputato a Lugano nel 1953. Mi avevano buggerato facendomi credere che fosse un tracciato adatto solo agli sprinter, non certo alle mie caratteristiche. Fui così lasciato a casa a favore di Petrucci, Magni e... naturalmente Fausto Coppi. Dopo due giri del circuito tutti erano già fuori gioco eccezione fatta per Coppi. Se fossi stato selezionato in azzurro, su di un percorso simile, avrei avuto da giocare una superba carta per la vittoria».
Le piace il ciclismo di oggi?
«È diventato troppo differente dal mio. Il nostro ciclismo era talora inumano, si sapeva quando si partiva e quasi mai quando saremmo arrivati al traguardo. Vedevamo percorsi aumentare di 50/60 chilometri all'ultimo minuto, senza che nessuno ci avesse avvisato. Alla nostra epoca c'era più spirito d'avventura, più gusto per la sofferenza, più altruismo. Oggi l'ingenuità non paga più, tutto è meno spontaneo».
Ci sono ancora dei grandi veri campioni?
«Ho ammirato molto, in tempi recenti, Indurain, Bugno e Chiappucci per il suo temperamento. Fondriest è stato un incompiuto. Tra i campioni del ciclismo attuale stimo, nonostante tutto, Marco Pantani, un ragazzo di grande talento che ha sbagliato e ha pagato e anche Michele Bartoli, altro atleta di grande carattere e grinta ma assai sfortunato».
Le piacciono i percorsi dei Giri e dei Tour di oggi?
«Le cronometro sono diventate troppo spesso decisive per la vittoria finale. Sono rare le grandi imprese nelle tappe di montagna, quegli exploit di cui la gente parla poi per anni ed anni. È un peccato che solo poche volte sia la montagna a decidere il nome del vincitore finale».
Qual è la sua classifica dei migliori ciclisti di tutte le epoche?
«Davanti a tutti Alfredo Binda, poi Coppi e Merckx sullo stesso piano, quindi Anquetil, Hinault, Van Looy, Van Steenbergen e qualche altro».
E Gino Bartali?
«Sta ai vostri lettori dirlo. Io non lo faccio».
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