Una furia di nome Vito Taccone

Rivista Tuttobici Numero: 12 Anno: 2000

Una furia di nome Taccone

di GinoSala

No, non ci sono più corridori come Vito Taccone. Corridori tromboni, corridori furiosi, corridori generosi come l'abruzzese di Avezzano, corridori con una mescolanza di pregi e difetti che ti offrivano materiale abbondante per scrivere di loro in ogni momento, sia quando vincevano, sia quando perdevano. Capaci di fare a botte con avversari giudicati per un motivo o per l'altro come dei traditori perché non avevano collaborato a sufficienza nelle fughe, perché facendo i furbi si trovavano alla fine con le gambe buone per emergere in volata. Il Taccone che schiaffeggia Luciano Armani, il Taccone che rifila pugni ad uno spagnolo (Manzaneque, se ben ricordo) il Taccone vulcanico, esasperato, trascinante, commovente per certi aspetti.

Aveva tanti tifosi, tanti ammiratori, tanti sostenitori. Infiammava le folle che disegnavano i tornanti delle varie salite, quando scattava era come se un filo di corrente elettrica passasse tra le pieghe del gruppo. Scatti brucianti, tremendi, insopportabili per molti. Aveva ragione quando battendosi il petto gridava ad alta voce che se ci fosse stato un altro tipo come lui, i campioni non avrebbero avuto pace. A suo modo un campione poteva ben considerarsi il Vito Taccone che nell'arco della sua carriera professionistica iniziata nel 1961 e terminata nel 1970 ha conquistato 27 vittorie tra le quali si contano un Giro di Lombardia, un Giro del Piemonte, un Giro di Campania, un Giro di Toscana, una Milano-Torino, un Trofeo Matteotti e otto tappe del Giro d'Italia. Una volta in maglia rosa, una volta in maglia azzurra. E nell'annuario storico del ciclismo italiano, preziosa opera di Luciano Boccaccini e Giovanni Tarello, trovo un'infinità di piazzamenti che vanno dal secondo al terzo posto.
Odiava i calcoli, osava a ripetizione. Piuttosto bassotto (1,64 di altezza) e tarchiatello, ma non pesante (58-60 chilogrammi) annunciava al mattino ciò che avrebbe combinato cammin facendo. Lo diceva con occhi sfavillanti, con un "chi ha coraggio mi segua" che era tutto un programma. Provocatore, anche. Insomma, un mastino sempre al centro dell'attenzione.

Un ragazzo del Sud che al Processo alla tappa condotto dall'impareggiabile Sergio Zavoli faceva "audience". Ne aveva per tutti, scaldava l'ambiente con roventi polemiche e adesso che gli anni sono passati, che le primavere di Vito sono sessanta, sappiamo tutti che tale è rimasto, che non si è affievolito come tanti quando l'età è avanzata e da leoni, per così dire, si diventa cagnolini.

No, Taccone è sempre Taccone. Non condivido tutto ciò che sostiene, però se guardo al plotone dei nostri giorni devo constatare che manca di gente vulcanica, di paesani come Vito che raramente portano la cravatta, che si radunano per rievocare vere battaglie a colpi di pedali, che erano e rimangono grandi amatori di una disciplina che pur aggiornandosi, pur negli inevitabili cambiamenti, non deve abbandonare i vecchi e buoni pergolati, quella santa povertà che è all'origine del grande ciclismo, quell'umiltà che deve distinguerci per evitare di finire nella rete di un lusso distruttivo.

Adesso Taccone un po' si rivede nel compaesano Danilo Di Luca e non risparmia critiche a chi misura il passo ad un giovanotto che è già una bella realtà. «Vai e spacca tutto - suggerisce il prorompente Taccone -. Sbaglia chi lo tiene nella bambagia..». Vai con giudizio, aggiungo io con la consapevolezza che oggi non bisogna, non si può vedere le cose con l'ottica di trent'anni fa.
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