Marino Vigna, figlio di una pista che merita il rilancio

Rivista Tuttobici Numero: 5 Anno: 2001

Marino Vigna, figlio di una pista che merita il rilancio

di Gino Sala

Marino Vigna con amore. Proprio così, giusto le parole che s'addicono alla carriera ciclistica del milanese salito sul trono olimpico di Roma 1960 per aver trionfato nell'inseguimento a squadre in compagnia di Arienti, Testa e Vallotto. Bei tempi. I tempi in cui le piste del mondo erano dipinte coi colori azzurri e mi viene il magone pensando alle tristezze di oggi. Marino è stato una delle nostre glorie. Bello da vedersi in tutti i sensi, un fior di atleta illuminato da un perenne sorriso. Classe 1938, un metro e ottanta centimetri d'altezza, settanta chilogrammi di peso. Col trascorrere degli anni ha conservato quei tratti che distinguono una persona dall'altra, quei toni gentili e affabili, quella semplicità di uomo piacevole e disponibile verso il prossimo.
È sempre stato lo stesso anche nei momenti difficili e quando lo incontro non c'è la minima ombra nel suo volto. Professionista dal '61 al '67, una tappa del Giro d'Italia, la Tre Valli Varesine, il Trofeo Laigueglia e la Milano-Torino tra le sue otto vittorie di stradista. Ricordo quella Tre Valli del '64, lunga nel chilometraggio e piena di salite, che si offriva ad un fondista più che a un pistard, ma Vigna era un pedalatore in tutti i sensi, che si affinava sugli anelli e si difendeva egregiamente nelle corse in linea.
Ricordo anche il Laigueglia del '65. Ventiquattro ore prima Vigna aveva concluso la Sei Giorni di Milano e a parere di molti (compreso il mio) non era da indicare come possibile vincitore della corsa ligure. Opinione generale che la settimana trascorsa nel chiuso di un Palasport averebbe tarpato le ali al ragazzo che difendeva i colori della Ignis.

Opinione completamente errata e fu Vigna a rimarcare i frettolosi e insensati giudizi della vigilia. Sono trascorsi trentacinque anni da quella domenica, ma non ho dimenticato il commento di Marino. «Bisogna mettersi in testa che dalla pista un corridore ricava esperienze utilissime. Sveltezza quando su strada dovrà misurarsi in volata, colpo d'occhio, furbizia nei movimenti e anche resistenza alla fatica dopo aver concluso una Sei Giorni...».

Già, le Sei Giorni sono un po' di tutto, sono un misto di verità e di falsità, di giochi e giochetti che non sempre collimano con la purezza, ma sono anche teatri con momenti appassionanti, battaglie in cui per rimanere sulla cresta dell'onda è necessario sposare l'audacia con la potenza. Felice Gimondi deve in buona parte la maglia iridata di Barcellona '75 alla destrezza accumulata nei panni del seigiornista. «Ho battuto Freddy Maertens allungando un gomito, cosa imparata nel carosello milanese, rammenta ogni tanto il bergamasco. Come a dire che la pista dovrebbe entrare nell'abbecedario di ogni corridore. Così non è purtroppo. Così potrebbe essere se i velodromi fossero teatro di competizioni che radunano gli stradisti nelle varie specialità. Arrivo addirittura a proporre un calendario unico, composto dalle gare su pista che si alternano alle prove su strada. Ci siamo dimenticati gli anni in cui il Vigorelli era pieno di gente per applaudire il Coppi inseguitore? Ricreare resta comunque la parola d'ordine, dare sostanza ad una bella serie di riunioni, togliere la muffa alle impalcature disseminate nella penisola. È utopia la mia? Credo che Marino Vigna direbbe di no.
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