Marco Pantani, l'ultimo chilometro - parte 1

Rivista Tuttobici Numero: 2 Anno: 2005

Pantani, l'ultimo chilometro - parte 1

di Andrea Rossini

L'ultimo chilometro della sua vita Marco Pantani lo percorse a piedi, senza essere fermato neppure per un autografo, risalendo viale Regina Elena fino al residence "Le Rose", sfiorando il lungomare di Rimini. Frontiera tra l'illusione luccicante del sogno e il peso opaco della realtà. Nella città, quella notturna, il campione da due mesi tornava con regolarità a bruciarsi le ali come una falena attratta dalla luce artificiale. Stavolta però era giorno, le 13.25 del 9 febbraio, e con sé aveva solo due zainetti e un pensiero fisso: rifornirsi di cocaina. Sotto il giubbotto Iceberg, la maglia nera del destino. A bordo del taxi, lato passeggero, con il naso incollato al finestrino aveva già esplorato per due volte il viale senza individuare l'abitazione che cercava. Quella dello spacciatore.
- Non ricordo il nome dell'hotel... devo incontrare degli amici.
Amici, disse.
La Mercedes nera 270 Cdi procedeva lenta tra insegne spente e saracinesche abbassate. Mario, l'autista foggiano di 47 anni, era in attesa di un segnale per fermare la vettura. La sua giornata di lavoro era cominciata verso le 10.30. L'avevano chiamato, come accadeva a volte, dall'Hotel Jolly Touring di Milano. "C'è da portare un signore a Rimini".
Testa pelata, pizzetto. Aveva riconosciuto subito Pantani, ma senza darlo a vedere. Il campione aveva tirato un sospiro di sollievo. Almeno non era il solito che arriva e ti chiede: Allora Pirata, quando torni in sella? Mario, evitando di fare domande ai clienti, era arrivato a possedere un autonoleggio tutto suo. Conversarono durante il viaggio, poco più di due ore da casello a casello. Commenti su auto d'epoca, Ferrari, Porsche, Harley Davidson. E impressioni sul senso di libertà che regalano i motori, quando la velocità fa schizzare l'adrenalina. Mai un accenno, neppure di sfuggita, al ciclismo.
- Mi lasci qui, vorrà dire che camminerò un po'.
Pantani raccolse dal sedile posteriore i due zainetti, pagò in contanti la somma pattuita per la corsa: 660 euro. L'autista ripartì: sullo specchietto l'uomo con il pizzetto diventava sempre più piccolo, immobile sul marciapiede, in cerca di orientamento. Pochi metri ancora e la Mercedes rallentò di nuovo: "Astolfi calzature", civico 249. Mario sorrise guardando in vetrina stivali dai tacchi vertiginosi e scarpe fosforescenti, di forme e misure stravaganti. "In quel negozio andranno le cubiste", commentò tra sé mentre pigiava sull'acceleratore. Era l'unica persona al mondo a sapere dove si trovasse Marco Pantani. Viale Regina Elena, Rimini. Approdo triste, solitario e finale di una deriva cominciata quasi cinque anni prima.
All'origine dei guai ci fu un pugno che infranse lo specchio di una camera d'albergo, a Madonna di Campiglio. Ma era nelle ultime settimane, negli ultimi giorni, che Pantani aveva fatto l'impossibile per lasciare niente e nessuno dietro di sé, procurando in realtà un definitivo senso di vuoto in ognuna delle persone più care. Davanti a sé ormai gli rimaneva soltanto un tratto di viale Regina Elena, poco più di mille metri.

La sostanza. La prima volta che il dottor Giovanni Greco fu chiamato a visitare Marco Pantani, il campione era in preda alle allucinazioni. Il Giro d'Italia 2003 era finito solo da pochi giorni, ma sembrava già un secolo. Il Pirata, accanto a sé, nella villa di Sala di Cesenatico, aveva due fedeli gregari: Fabiano Fontanelli e Roberto Conti. Erano stati loro a rivolgersi, poco prima, al medico romano in servizio al Sert di Ravenna, specialista in dipendenze. Erano passati a prenderlo e avevano cercato di prepararlo a quanto avrebbe visto. I genitori avevano chiesto aiuto a Davide Boifava, il direttore sportivo, e loro si erano messi in moto.
- Sta male, pronuncia frasi senza senso. Ha passato la notte fuori, l'abbiamo riportato a casa.
Non c'era bisogno di aggiungere altro. "La caduta degli dei: psicopatologia del cocainomane e presa in carico" era il titolo del seminario tenuto da Greco a novembre nella sua città di adozione. Doveva fare solo il suo mestiere.
Per stabilire un contatto con Pantani, il medico gli somministrò 25 gocce di neurolettico associate, per compensarne gli effetti, a una compressa di un farmaco prescritto in genere ai malati di Parkinson. Il campione rientrò in sé alla svelta e riacquistò, di colpo, la lucidità perduta. Da allora, se mancava la cocaina, c'erano le pillole a sostenerlo.
- Scusate, non succederà più, promise.
Era giugno. In ballo c'era ancora la partecipazione al Tour de France. Non poteva immaginare che di lì a poco gli avrebbero sbattuto l'ennesima porta in faccia, non dopo essere tornato a sudare sui pedali per prepararsi al riscatto.
Pantani accettò di seguire i consigli del dottor Greco che divenne da quel momento il suo unico riferimento sanitario, gettò via gli ipnotici che qualche "praticone" del sabato sera gli aveva suggerito di prendere per contenere gli effetti della droga.
- Non sono un tossicodipendente, aggiunse.
È quello che dicono tutti: i presenti si scambiarono uno sguardo interrogativo. Proprio al Giro, però, aveva dimostrato di poter fare a meno della polvere bianca. Cocaina. Un termine che Pantani non riusciva a pronunciare, forse per pudore. Se proprio era costretto a parlarne la chiamava, semplificando, "sostanza".

I sogni s'infrangono con le droghe. Il dottor Greco, nelle settimane successive, ricostruì a malapena la storia clinica del nuovo paziente, attraverso i racconti dei genitori, della manager Manuela Ronchi, della sua cerchia di amici e colleghi ciclisti.
Tutto cominciò con un pugno contro lo specchio, nella camera d'albergo a Madonna di Campiglio, il 5 giugno '99.
Un "tiro" sembrava un ottimo rimedio per superare lo stress, allentare le pressioni, attenuare il dolore, combattere la depressione. Era quello che gli suggerivano, più o meno apertamente, anche certi amici, neppure troppo balordi, almeno dal lunedì al venerdì. Con le loro facce pulite, da commercianti o imprenditori, con i soldi in tasca da spendere in compagnia di modelle o commesse del centro non importa, nella Romagna dello sballo, dove le due "strisce" da sniffare nel bagno del locale di tendenza non sono l'eccezione. Se Pantani fosse nato a Palù di Giovo, come Francesco Moser e Gilberto Simoni, questa sarebbe un'altra storia.
I primi ad accorgersi che la "sostanza" stava diventando un problema per Pantani furono proprio quelli per cui non lo era. Vitelloni, più che spacciatori. Privée e champagne nei locali di Milano Marittima e dintorni, conoscenze di ogni genere nel mondo della notte.
- Guarda che stai esagerando, così ti friggi il cervello, cominciò con il metterlo in guardia il commerciante che l'aveva invitato a "provare".
- Andiamo, è tardi, domani devo lavorare.
Ma lui, niente. Allungava le chiavi dell'auto e sussurrava:
- Vattene a casa, io ancora non torno.
In famiglia cominciarono a capire. Ma dire a Marco quello che doveva o non doveva fare, non era mai stato semplice per nessuno nemmeno da ragazzino, figuriamoci in quel momento. Pareva incapace di reagire e già nell'autunno '99 non era più la stessa persona di prima: diffidente, malinconico, irascibile, ansioso.
Nei mesi seguenti cominciò ad aprirsi con la manager, con cui fino ad allora aveva intrattenuto un rapporto professionale riguardo la gestione dei diritti d'immagine. Raccontò di quanto soffrisse in profondità, di quanto il sentimento di aver subìto un'ingiustizia lo logorasse dall'interno. "Mi sono sempre rialzato, stavolta non ce la faccio", le scrisse.
A cavallo del 2000 le confidò di ricorrere, di tanto in tanto, nei momenti di disperazione, alla cocaina. I piccoli malanni che costellarono la stagione agonistica nascondevano un'altra verità. Eppure con appena venti giorni di seria preparazione alle spalle alla fine del Giro era più in forma dei migliori: il suo contributo alla vittoria del compagno di squadra Stefano Garzelli fu determinante. I duelli, anche verbali, con Lance Armstrong al Tour, lasciarono ben sperare, anche se la malinconia rabbiosa del campione faceva trasparire che la vera lotta non si svolgeva lungo le strade francesi, ma dentro di sé.
Il 2000 fu anche l'anno della sentenza di Forlì, originata da un'indagine del pubblico ministero torinese Raffaele Guariniello: l'11 dicembre il giudice Luisa Del Bianco inflisse al campione tre mesi (con la condizionale) per frode sportiva. La decisione, quasi un anno dopo, venne ribaltata in appello a Bologna: Pantani uscì con il certificato penale pulito da tutte le inchieste svolte nei suoi confronti da ben sette procure d'Italia. Solo per difendersi spese qualcosa come ottocentomila euro.
Da allora però divenne impossibile per chiunque cercare di contraddirlo ogni volta che parlava di persecuzione. Ammesso che ci fosse qualcuno disposto a dargli torto.
L'anno successivo la situazione si aggravò. Pantani stesso, che al padre rispondeva di voler risolvere i suoi problemi da solo e a modo suo, cominciò a rendersi conto di aver bisogno di un aiuto concreto per liberarsi dalla droga.
Nel novembre 2001, dopo una stagione agonistica da dimenticare e con in testa l'eco delle relazioni pericolose in riviera, Pantani si rivolse a Fabrizio Borra, amico e fisioterapista di Forlì che lo aveva rimesso in piedi dopo il grave incidente del '95. Tutta la squadra fu investita della questione e fece quadrato per cercare di far uscire il Pirata da quella brutta faccenda. I medici della società interpellarono un esperto di tossicodipendenze, il dottor Mario Pissacroia, con studio professionale a Firenze.
Il responso fu chiaro: era importante non allontanare Pantani dalla bicicletta. Mantenerlo nel pieno dell'attività agonistica l'avrebbe aiutato a superare il disagio psicologico senza provocare alcun contraccolpo dal punto di vista fisico.
La preparazione al Giro 2002, quell'anno, avvenne sotto sorveglianza, non soltanto medica, da parte della squadra e della manager. Attorno a Pantani continuarono a circolare comunque "parassiti" non legati all'ambiente. Capì quando ormai era troppo tardi che avrebbe fatto meglio a stare alla larga da loro, ma altri si attaccarono alla sua fama e ai suoi soldi.
Il lungo ritiro non restituì il campione di un tempo alla più importante corsa a tappe italiana, ma sembrò contribuire a rimettere in carreggiata l'uomo.
Nel giorno stesso del ritiro del Pirata, ai piedi della Marmolada, a due giorni dalla fine della corsa, giunse la notizia del rinvio a giudizio davanti al giudice di Trento (altra assoluzione, nell'ottobre 2003, perché il fatto non era previsto come reato). Il peggio doveva ancora capitargli.
Con effetti più devastanti dell'auto, della jeep, del gatto che tra il '95 e il '97 gli avevano causato i più gravi incidenti subìti in carriera, Pantani fu infatti travolto a sorpresa da una squalifica di otto mesi.
Nel mirino c'era la vicenda della siringa con residui di insulina trovata l'anno prima a Montecatini nella camera 401 del Grand Hotel Francia e Quirinale, una delle stanze occupate dalla squadra del Pirata durante il Giro 2001.
Gli indizi in mano alla Federciclismo per attribuire al Pirata l'uso della sostanza illecita furono giudicati da tutti gli osservatori labili e insufficienti per arrivare alla condanna. La commissione federale d'appello, massimo organo della giustizia sportiva, revocò infatti la squalifica per "non aver commesso il fatto". L'Unione Ciclistica Internazionale intervenne, però, per far valere comunque il periodo di stop, sebbene con uno sconto di due mesi.
Per Pantani rappresentò il crollo. Dopo tanti sforzi gettò la spugna. Tornò alle cattive compagnie, un eufemismo. Si tuffò nella polvere bianca. In casa ormai i genitori sapevano quale spiegazione darsi di fronte a bottiglie bucate, pezzi di carta stagnola, candele consumate, vuoti di bicarbonato, nascosti alla meglio nei posti più strani. Aveva preso a fumarla, la sostanza. Ce ne voleva sempre di più e gli effetti diminuivano.
Paradisi artificiali, illusori sogni luccicanti, per evadere da un'opaca realtà: il "sistema" che lo ributtava nel fango proprio mentre a fatica provava a risollevarsi. Sempre più convinto dell'esistenza di un complotto ai suoi danni era nauseato da tubolari e strategie di corsa, ma soprattutto dagli ipocriti e dagli sciacalli. Ed era una preda all'ambivalente sentimento che lo legò alla bici negli ultimi tempi, o forse da sempre fin da quando nonno Sotero gliene regalò una: né con te, né senza di te.
- Non cercarmi più, disse alla manager verso la metà di giugno, e sparì dalla circolazione.
Dopo ferragosto però tornò a farsi vivo con Manuela Ronchi. Era a pezzi.
- Sono in crisi, non ce la faccio ad uscirne.
La donna, assieme al marito, adottò l'unico metodo che dava dei frutti: allontanarlo da Cesenatico. Ormai per lei non era più questione di lavoro. Pantani, nel '98, l'aveva scelta a naso, nonostante le perplessità di un collaboratore che gli fece notare:
- Nel biglietto da visita non ha neppure scritto dottoressa.
- La fiducia è una questione di sensazione, rispose.
L'aveva vista per la prima volta assieme ad Alberto Tomba, e la chiamò qualche tempo dopo sapendola a Riccione per incontrare Laura Pausini. Gli aveva fatto una buona impressione. Fu grazie alla Ronchi che Pantani modificò la sua immagine trasformandosi nel Pirata, con tanto di bandana e orecchino, quest'ultimo mal digerito dal padre tradizionalista.
Non sbagliò la scelta della manager quando era una miniera d'oro, ma la sua consulente si rivelò ancora più preziosa davanti alle difficoltà. Fu l'affetto e non l'interesse a spingere Manuela Ronchi con il marito Paolo a portare Marco in vacanza con loro in Norvegia, nell'autunno 2002.
Lo scopo nascosto era quello di far incontrare Pantani con Renato Da Pozzo, alpinista, uno degli uomini di avventura italiani più conosciuti al mondo. Da Pozzo, nel profondo nord teneva lezioni agli atleti di sport estremi, oltre a far parte del prestigioso gruppo di campioni cui la Ronchi, in quel periodo, curava l'immagine attraverso la sua Action Agency: da Max Biaggi ad Antonio Rossi, da Giovanni Soldini ai calciatori Francesco Coco, Sebastian Frey, Mohamed Kallon e Cristian Abbiati.
Il colloquio tra il "guru" dell'alpinismo e Pantani durò più di otto ore. Da Pozzo parlò della sua attività, e dell'esplorazione moderna come scoperta essenzialmente interiore. Suggerì al ciclista il concetto che l'attività sportiva, agonistica, non va intesa come un fine, ma un mezzo per perseguire l'interezza, il miglioramento non di prestazioni, di vittorie, ma di consapevolezza e quindi saggezza. Pantani ascoltò con attenzione, ma da uomo di mare, non si volle trattenere un minuto di più per farsi "addestrare" in Lapponia dall'alpinista-filosofo e chiese di rientrare in Italia. I tre - Manuela Ronchi, il marito e Pantani - rimasero invece in Norvegia, da turisti. Da lì, su preghiera del campione, si trasferirono in Danimarca.
Nelle due settimane a Copenhagen, Pantani incontrò la sorella di Christina Jonsson, la ragazza che nei sei anni precedenti era stata la sua fidanzata.
Christina aveva rotto la relazione durante l'estate "nera" e stavolta la cosa, dopo tante fratture e riavvicinamenti, sembrava definitiva. Il campione non riusciva a farsene una ragione. Non riuscì a dimenticarla nemmeno dopo, non ci riuscì mai.
In ginocchio su ogni fronte, ma rafforzato dall'aver tenuto a distanza la droga, Pantani tornò a cullare il sogno di tornare se stesso, di risollevarsi dalla polvere. La Ronchi rimase accanto a Pantani anche in Italia, per altre due settimane, a Saturnia in Maremma, nella tenuta dell'atleta. La manager da una parte toccò le corde giuste con l'amico-cliente, e dall'altra cominciò a lavorare nel ciclismo perché si costituisse attorno a Pantani un gruppo di persone sincere, pronte a credere in lui e a dargli fiducia, ma capaci al tempo stesso di non fargli sentire il peso delle aspettative.
Tra alti e bassi, compresa una ricaduta nella depressione proprio a Saturnia forse dovuta alla cocaina, in lui tornò la voglia di essere un tutt'uno con la bici, quindi cominciarono i contatti per formare una squadra.
La decisione di tornare a correre la prese tra dicembre e gennaio, in Grecia. I genitori erano riusciti a convincerlo ad andare con loro e una coppia di amici, in camper, per una battuta di caccia. Con il fucile in spalla, fianco a fianco con papà Paolo come ai vecchi tempi, Pantani si sentì di nuovo pronto per l'agonismo. Il padre ebbe un ruolo in quella scelta e ne fu orgoglioso, quello che dicevano i medici lui lo sentiva a pelle:
- Marco, sei arrabbiato con la gente che ti ha distrutto nel mondo del ciclismo, e hai ragione, ma è solo quel mondo che può farti tornare a star bene.
Romano Cenni, patron della Mercatone Uno, gli spalancò le braccia. Davide Boifava mise al suo servizio esperienza e buon senso. Quindi tutti in Spagna, ad allenarsi, in attesa del via libera dei giudici sportivi del Tribunale amministrativo di Losanna sulla ripresa dell'attività. Il tira e molla sui tempi della squalifica si chiude il 13 marzo. Aveva perso un anno. Dall'albergo spagnolo, dove si trovava Pantani chiamò la Ronchi:
- Sono felice, anche se avrei voluto cominciare prima, adesso possiamo fare dei programmi.
Pantani le descrisse le sensazioni che dopo tanto tempo era tornato a provare in bici. E non si riferiva solo ai mesi che era stato senza mai montare sul sellino.
Le aggiunse che durante l'allenamento, otto ore al giorno, i pensieri si scioglievano, tutto scorreva veloce ed esistevano solo lui e i pedali. Scacciava così i fantasmi della "sostanza", di Christina, del doversi ripresentare sapendo di ripartire da zero. L'equilibrio era fragile, la sensibilità scoperta a future ferite, ma la Ronchi lo tranquillizzò:
- Ti basterà un successo, uno solo, per darti fiducia: vedrai, tornerai quello di prima.
Anche i genitori lo incoraggiavano ogni giorno, e si abbracciavano tra loro al pensiero di aver ritrovato Marco. Tornò a correre il 26 marzo 2003 sulle strade di casa, in Romagna, per la "Settimana internazionale Coppi e Bartali". La prima tappa partì da Riccione. Pantani era emozionato, quasi come al debutto.
Nella prima semitappa a cronometro del pomeriggio un'ammiraglia contromano rischiò di investire il Pirata che urlò tutta la sua rabbia all'autista prima di tagliare il traguardo affaticato, ma soddisfatto. Fu però dopo l'ultima tappa, il 30 marzo a Sassuolo, che Pantani tornò a sorridere. Si impegnò nello sprint e sfiorò il successo. Vinse Ivanov, Pantani giunse secondo. Non accadeva da quasi tre anni, il 16 luglio 2000: Courchevel, Tour de France, l'ultimo dei 36 trionfi in carriera.
La gente era in delirio.
- È tornato il Pirata? - commentò all'arrivo - È presto per dirlo. L'ultimo podio affonda nel tempo, ma quando uno ai podi è abituato pensa sempre alla vittoria e il mio errore stavolta è stato quello di volerla troppo presto: sono partito per la volata quasi con entusiasmo, con la voglia di esplodere, volevo arrivare al traguardo prima di ogni altra cosa, mi spiegò. Ora il morale c'è, ma le batoste forse arriveranno, quindi meglio non illudersi. Torneranno i momenti difficili e questo mi insegnerà a tener duro, a soffrire, a non mollare mai. Perché nel ciclismo non è detto che vinca il più forte, bensì il più tenace, quello che sa stringere i denti più di altri.
Lo strapparono dall'abbraccio degli amici, quelli veri e quello fasullo, per riportarlo in Spagna. A marcarlo stretto, in previsione del Giro 2003, fu chiamato Daniel Clavero, gregario con moglie psicologa.
Proprio quando tutto sembrava filare liscio, il campione tornò in fuga. Rientrò in Italia ad aprile, ma un po' prima del previsto. Disse di aver ricevuto una telefonata da Christina, trascorse una notte fuori, soliti giri per locali, e quando lo ritrovarono fu chiaro che bisognava ricominciare tutto daccapo. Dovettero scuoterlo per farlo tornare in sé, poi lo condussero per mano nelle settimane successive fino alla partenza del Giro 2003. L'ultimo.
- Sono stati tre anni tremendi - dichiarò alla vigilia, disquisendo sul concetto di autostima - ma saprò rialzarmi.
Quella vittoria che avrebbe potuto salvarlo non arrivò. Andò vicino a ottenerla nell'arrivo alle Cascate del Toce, ma nessuno gli fece sconti a cominciare da Simoni, maglia rosa, che andò a riprenderlo.
Pantani chiuse al quattordicesimo posto in classifica generale: senza una sfortunata caduta sarebbe potuto rientrare addirittura nei primi cinque. Un'impresa per i suoi sostenitori e per la critica, ma non per lui, rigenerato dal punto di vista fisico, ma non ancora da quello psicologico.
Non era riuscito a battere se stesso. Stare nel gruppo, in corsa come nella vita, non faceva per Pantani. Il dono del talento immenso, sprecato poeticamente come in un artista maudit, lo faceva grande e infelice. Diverso dagli altri. Strappandosi di dosso il pettorale, sentì che gli mancava qualcosa. Dovette credere che a mancargli fosse la cocaina.
1 - continua
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