Ninni Radicini: recensione libro su Ottavio Bottecchia "BOTTECCHIA - IL FORZATO DELLA STRADA" di Paolo Facchinetti (Ed. Ediciclo)

"BOTTECCHIA - IL FORZATO DELLA STRADA"
di Paolo Facchinetti, ed. Ediciclo, pag 269, ott. 2005
www.ediciclo.it

Recensione di Ninni Radicini

Anche in epoca di ciclismo tabellare, il nome Ottavio Bottecchia conserva un suono da leggenda. Primo italiano a vincere il Tour de France, nel 1924, ripetendosi l'anno dopo, e primo a tenere la maglia gialla dalla tappa iniziale fino all'arrivo a Parigi. Classe 1894, nato a San Martino, frazione di Colle Umberto (Veneto), arruolato nel reparto ciclisti dei Bersaglieri, durante la Prima guerra mondiale, si ritrova a vivere situazioni in cui rischia seriamente la vita.
Ne esce grazie a molto coraggio e altrettanza astuzia. Alla fine si guadagnera' una medaglia di bronzo al valore. Tornato a casa, insieme a suo fratello Giovanni, anch'egli decorato per il suo eroismo, dovra' subito riprendere a lavorare perche' le condizioni sono peggiori di quelle che aveva lasciato. Come altri connazionali emigra in Francia, dove sente parlare del Tour de France.
Non solo una corsa ciclistica, ma una specie di inferno in terra, dove si corre per quasi seimila chilometri in qualunque condizione atmosferica, scalando montagne leggendarie. Albert Londres, celebre per i reportages sui condannati ai lavori forzati della Cayenna, defini' i ciclisti "forzati della strada", perche', anche a costo di superare artificialmente i propri limiti, dovevano cercare di portare a termine la corsa. Sadismo puro per alcuni.
Per altri invece una sfida con la vita, una corsa all'oro dove alla fine, se si arriva a Parigi, c'e' la possibilita' di tornarsene a casa con un bel po' di soldi. Perche' Henry Desgrange, il "dittatore" del Tour, ricompensa bene i suoi ciclisti. E' soprattutto per questo motivo che Bottecchia, dopo qualche corsa in Italia tra il '22 e l'inizio del '23, accetta la proposta di partecipare al Tour.
Lo ingaggia l'Automoto, una delle piu' forti, se non la piu' forte, tra le squadre di Francia, ovvero, in quel momento, del mondo ciclistico. A segnalarlo e' il direttore sportivo Pierrand, con il suggerimento di Henry Pellissier, il piu' celebre ciclista francese.
L'Automoto doveva aprire una filiale a Torino e quindi, per strategie promozionali, aveva bisogno di ingaggiare qualche ciclista italiano.
I piu' grandi, tra cui il piu' titolato, Girardengo, declinano, preferendo rimanere a correre in Italia, magari con ingaggi inferiori a quelli del Tour ma in corse meno sfiancanti. Il Giro d'Italia, come termine di paragone, si correva in poco piu' tremila chilometri: il Tour era una volta e mezza in piu'. Bottechia per l'Automoto e' l'ultima scelta. Non poteva essere altrimenti dato il curriculum del veneto, pur
essendo stato la rivelazione del Giro d'Italia del '23.
Persona semplice e taciturna, non fa' grande impressione quando si presenta in Francia. Squadra e organizzazione sono convinti che quel curioso ciclista italiano, dall'abbigliamento (non volutamente) eccentrico e con uno stecchino nel risvolto della giacca, avrebbe abbandonato dopo tre tappe. A loro, in verita', poco importava. Gli bastava presentare alla partenza un paio di italiani (l'altro era il piu' smaliziato Santhia', un buon gregario).
Dovettero subito ricredersi. Tavio si dimostra un ciclista formidabile. Grazie alle tecniche apprese da Ganna (il primo vincitore del Giro), che aveva creduto in lui come professionista, riesce a utilizzare nel migliore dei modi le sue doti naturali. Rimane per sei giorni in maglia gialla ma alla fine il Tour lo vince l'idolo locale, Henry Pelissier.
Il vincitore morale, per il pubblico, per i giornalisti, per gli organizzatori, e forse anche per i dirigenti dell'Automoto, e' però quell'italiano, sconosciuto fino a un paio di settimane prima, secondo nella classifica finale. Tutti, Desgrange per primo, sono convinti che sia lui il futuro. Sommerso dagli inviti degli organizzatri di altre corse, Tavio totalizza ingaggi fino ad allora inimmaginabili. L'anno successivo, il 1924, e' quello della prova del nove. E' davvero un campione? Per i francesi lo e'. E lo e' anche per gli italiani, i cui maggiori quotidiani dispiegano uomini e risorse per seguire la corsa francese, come mai era avvenuto prima, anche perche' fino ad allora gli italiani alla Grande Boucle avevano raccolto le briciole.
Certo tutta questa attenzione verso Bottecchia, l'ultimo arrivato, non era molto gradita suoi colleghi. Ma piaccia o no e' lui il ciclista piu' forte del momento. Il Tour lo vince, entrando nella leggenda, arrivando primo nella tappa Bayonne-Luchon, con quattro montagne da scalare, tra cui Tourmalet. Non e' piu' il "garibaldino" di un anno prima. Ha maturato doti di controllo della corsa, necessarie soprattutto per il ciclismo dell'epoca, in cui ognuno deve risolvere da solo ogni problema: dal cambio del tubolare forato alla ricerca del cibo per sfamarsi.
I francesi lo adottano. Qualcuno vorrebbe farlo nel vero senso della parola, visto che mettono in mezzo pure la genealogia. Secondo alcuni "Botescia'", come lo chiamano Oltralpe, sarebbe di origini francesi (suo avo sarebbe un soldato dell'esercito di Napoleone passato dalle parti del Veneto...).
Anche in Italia i giornali, le cui vendite si impennano con le sue vittorie, lo esaltano come sportivo esemplare. Lo esalta, con qualche fronda, anche il regime, che tale diventera' ufficialmente nel '25, pochi mesi prima della vittoria del secondo Tour, nonostante i tanti ostacoli posti da Desgrange (18 tappe invece di 15, nessun abbuono ai vincitori di tappa, dieci minuti di penalizzazione).
Le sue vittorie e la celebrita' sono motivo di vanto per i tanti italiani emigrati in Europa e in America. Dall'Argentina riceve un invito dal Club Huracan per una tournee. Accetta e parte da Marsiglia insieme con Alfonso Piccin, amico di vecchia data e ciclista anche lui. Dopo un mese di viaggio arriva a Buenos Aires, accolto da una folla che lo esalta come un eroe. Anche lui, come loro, ha dovuto lasciare la propria terra e i propri cari per guadagnarsi il pane. Adesso - ricco e rispettato - rappresenta cio' che ognuno di coloro che lo aspettano avrebbe voluto diventare emigrando.
Bottecchia muore nel 1927. Uscito in bicicletta per un allenamento, e' ritrovato in gravi condizioni lungo una strada da alcuni contadini. Portato in ospedale, rimane in agonia senza mai piu' riprendersi. Dubbi e sospetti si inseguono sulle cause. I familiari credono si sia trattato di un tragico incidente. In seguito, varie ricerche giornalistiche cercheranno di approfondire la tragica fine del campione veneto ma senza arrivare a una conclusione certa.
Su Ottavio Bottecchia sono stati pubblicati altri libri, la maggior parte incentrati sui misteri intorno alla sua morte. Questo di Paolo Facchinetti ha invece il pregio di evidenziare la parte strettamente sportiva: gli inizi di carriera, il passaggio al professionismo, le vittorie al Tour, la crisi del 1926, a cui partecipa senza troppa voglia, soltanto per l'ingaggio stratosferico.
A distanza di ottant'anni dai suoi trionfi (termine in questo caso piu' che opportuno), di quel ciclismo e di quella cultura popolare rimane, oltre a una certa, naturale, malinconia, che coinvolge il lettore di questo ottimo libro, anche la immagine di uno sport difficile e tremendamente faticoso, ma avvincente come un viaggio verso territori ignoti. E soprattutto la storia, insieme sorprendente e tragica, di un italiano del popolo, che si chiama Ottavio Bottecchia.

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Articolo inviato da: Ninni Radicini ()
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