Michele Bartoli, il ritiro di un campione

Ha scelto una mattina di fine novembre, quando i corridori hanno ormai esaurito le vacanze e vanno in ritiro con le loro squadre a gettare le basi per un'altra stagione. Ha convocato i giornalisti in un albergo di Milano e ci ha messo pochi minuti per dire quello che tutti avevano paura di sentire. Smetto, non posso più correre, non ha più senso. Poche parole e il ciclismo si è ritrovato senza uno dei suoi protagonisti più veri. Uno che ha avuto in dono la classe ma la pace no, quella mai. Se fosse stato diverso, magari avrebbe vinto di più. Ma non sarebbe stato Michele Bartoli, e allora che gusto c'è? Quando ha vinto - il Fiandre, le Liegi, la Freccia, l'Amstel, il Lombardia, le coppe del mondo - lo ha fatto con l'apparente facilità di chi è superiore. Tutte le volte che non ha vinto - la Sanremo, ma soprattutto i Mondiali - gli è rimasta la rabbia di chi crede che il talento dovrebbe bastare. Ci mancherà un fuoriclasse, c'è scritto sulla targhetta d'argento che gli ha regalato Zazà Zanini assieme al chiodo a cui attaccare tutta la carriera. Una carriera che comincia quando Michele Bartoli viene al mondo, alla fine di maggio del 1970, a Pisa.
Il successo di Dancelli alla Milano-Sanremo era ancora abbastanza acceso nella testa di Graziano Bartoli, che la malattia della bicicletta ce l'aveva da tutta la vita. Quando portò sua moglie Simonetta all'ospedale con le doglie, Graziano decise che se fosse stato un maschio l'avrebbe chiamato Michele come Dancelli.
Graziano correva e vinceva, era un corridore non troppo diverso da suo figlio: bravo nelle volate ristrette, magari un pò meno veloce ma un pò più forte in salita. Doveva passare professionista, con Bitossi, ma in una delle ultime gare da dilettante una macchina lo prese in pieno: rimase qualche giorno in coma, e quando si sveglio capì che avrebbe fatto il falegname, non il corridore. Suo padre aveva fatto il boscaiolo tutta la vita, e Graziano ci sapeva fare. Aprì una bottega per conto suo e si mise a costruire mobili, di quelli per le barche. Ma appena aveva mezzora libera prendeva la bicicletta e andava a pedalare dalle sue parti a San Giovanni alla Vena. Un talento nascosto, come la passione di un ragazzo che non ha potuto fare il corridore e appena ha avuto un figlio gli ha regalato una bicicletta, convinto che la vita l'avrebbe risarcito così. Michele aveva due anni e una Graziellina bianca da donna. La prima corsa vera la mette su Graziano nel piazzale su cui affacciano la sua casa e quelle dei suoi fratelli. La chiama "giro dei macelli" e i corridori sono suo figlio Michele e i suoi nipoti, Elisabetta e Massimo.
Michele comincia a vincere subito e non smette mai. La prima squadra ce l'ha a otto anni, da Ivano Fanini, che lo fa correre con una della sue bici, verde. Le prime due gare Michele arriva secondo, la terza domenica si corre a Fornacette, per lui una trasferta di cinque chilometri. Il percorso è un vialone largo, con le aiuole in mezzo, da fare avanti e indietro: arriva da solo, vincendo per distacco come farà spesso da piccolo.
Questo è solo l'inizio di una grande avventura che lo porterà ai vertici di questo sport.
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