3 novembre 2006 - L'inferno rosso congela tutto (articolo de La Gazzetta dello Sport)

di Marco Pastonesi

La tappa decisiva del Tour del Burkina Faso non decide niente: frazione al francese Bonsergent, leader è sempre Verdonck. Tra cadute, sigarette e pullman fermi.

KOUGOUDOU (Burkina Faso), 3 novembre 2006 - Lo chiamano "l'inferno rosso". Venticinque chilometri di pista rosa, ruggine, viola, fucsia, arancione e, se voli, rosso sangue. Terra che diventa polvere e polvere che ritorna terra, sassi, buche, tanti ponticelli senza ruscelli né fiumi, e più curve qui - poche comunque - che nel resto del Burkina Faso. "L'inferno rosso" è la Parigi-Roubaix africana: quelli non sono occhi e guance, ma lampi e croste; quelli non sono muscoli e bici, ma carcasse e ferramenteria.
Annunciati da una nuvola che sa di sudore e carrube, introdotti dai fari sobbalzanti delle Mercedes, i corridori: il bretone Stéphane Bonsergent che ancora scappa a un branco di segugi, il camerunese Joseph Sanda, il burkinabè Abdul Wahab Sawadogo, il roseo belga David Verdonck, il redivivo Jérémie Ouedraogo. Poi è solo sudore e carrube. La tappa decisiva del Tour del Burkina Faso non ha deciso un bel niente. Nei quartieri alti è tutto come prima. In quelli bassi pure. I quartieri bassi si vedono dalla strada, sulla strada.
Sawa, ammesso che si scriva così, ha 24 anni e ne dimostra 16. E' di una bellezza sconvolgente. Non è mai andata a scuola: "Mio padre non mi ha mai lasciato". Preferiva che lavorasse: in casa, nel villaggio, a vendere. Vende banane, papaie, limoni: dipende. A casa adesso sono in tre: la mamma, che non lavora, lei e una sorella. "Vorrei sposarmi, ma chi vorrà mai prendere in moglie una che non è mai andata a scuola e che non ha un lavoro?". Bargissa ha 14 anni, ma potrebbe averne anche 10 o 16: vende biscottini di sesamo caramellati, e il suo sorriso è più potente di un'atomica.
Sulla strada anche un pullman, messo di traverso: è lì da 4 giorni, metti che esagerino un po', facciamo tre giorni, è lì da tre giorni, i passeggeri di notte accendono un fuoco e di giorno chiedono acqua, qualcuno è sotto il pullman a cercare un'intuizione meccanica o una ragione di vita. E sopra il pullman c'è un altro pullman, ma senza carrozzeria: moto, bici, tende, fagotti, monolocali di quotidianità che rischiano grosso. Poi cinque baschi: quattro uomini e una donna. In bici. Mountain bike. Dal Mali al Burkina, mille chilometri in 10 giorni, un altro giro, minuscolo nel senso dello sport, maiuscolo nel senso delle emozioni. Dormono in tenda, mangiano dove trovano, chi si è visto si è visto.
Si vede anche Mohamed Bilal, direttore sportivo del Marocco: fuma una sigaretta via l'altra, "totale 26 al giorno, ma solo in corsa, altrimenti non ne sento neanche il bisogno". Tutto sta a capire quanti siano i suoi giorni di corsa in un anno. Al pronti-via quell'uomo piazzato, camicia azzurra e pantaloni kaki, cappello da cowboy e occhiali a goccia, è Jean-Marie Leblanc, il patron del Tour de France. Ha scelto "l'inferno rosso" e il Tour du Faso, come lo chiama lui, come l'ultima fermata della sua lunga corsa.
Scattano i burkinabè Désiré Kabore e Gueswende Sawadogo e il giapponese Yosuke Suga. Ripresi, tocca al senegalese bianco Michael Barboza. Ha bisogno di respirare, il ragazzo. Si porta dietro altri sei audaci che tentano il colpo. Il gruppo li tiene, al massimo, a 2', si viaggia a 43 di media, e Saidou Rouamba, "il capitano", fora. Poi curva a sinistra e da qui in poi si pedala assatanati. Attacca Bonsergent, più per aprire la strada al compagno Julien Gonnet che per un momento di gloria personale.
Ma i belgi non abboccano, e lo lasciano rosolare a vista, come un pollo all'aglio, che qui è una specialità: 20", 15" quando attaccano i marocchini, 10" quando rilancia Martinien Tega, secondo nella generale. Ma i belgi rispondono. Tocca agli egiziani, ma oggi è giornata storta: Mohamed Abduaziz si scontra con una moto e non può che avere la peggio, Hisham Fadel e Ahmed Rashad, il vincitore di ieri, ci pensano da soli a cadere. Fora il marocchino Adil Jeloul, terzo in classifica, e Abdelati Saadoune, quello che non sorride mai, non sorride neanche stavolta, ma si ferma per aiutarlo.
Nel nuvolone, Lionel Syne, il belga mezzo californiano, neppure lo vede eppure lo centra in pieno. Sul podio Bonsergent, che viene dal ciclocross, sventola la bandiera bretone, Verdonck agita le braccia al cielo, il giapponese Kentaro Eshita, oggi così combattivo, si nasconde dietro gli occhiali da miope. Invece Leblanc troneggia, lui sembra nato per stare sul podio, anzi, Leblanc è un podio. E adesso dedichiamoci a Frédéric Obiane Essono, ma sì, dai, il gabonese che ieri si era ritirato perché aveva spaccato il cambio e così la catena continuava a cadere. Oggi è arrivato 64° a 7'38".
E' successo che i giudici, considerata la bici rotta, assistito alle tre volte in cui lo scalatore nero è sceso di bici per sistemare la catena, e ammirato il calvario dell'ultimo chilometro e mezzo in cui ha spinto il cancello a piedi con scarpe tacchettate (provateci: è un'impresa) perdipiù in leggera salita, hanno stabilito che Obiane Essono sarebbe ripartito. Forse ha fatto uno, se non due giri in meno dei 12 previsti dal circuito, ma la sua correttezza doveva essere premiata. Cosa c'era scritto sul culo di quel camion? "Petit à petit, ça va aller", a poco a poco andrà meglio. Visto che qui la luna sembra più vicina e i sogni si avverano, forse anche per Sawa e Bargissa, a poco a poco, chissà.
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