Ettore Milano

Ettore Milano, il gregario divenuto fratello acquisito di Fausto Coppi, è morto stamattina a Novi Ligure; aveva 86 anni. Era nato il 26 giugno 1925, a San Giuliano Nuovo, in provincia di Alessandria. Con lui se ne va uno dei tre grandi angeli custodi del Campionissimo, quelli di più lungo corso, gli altri sono Andrea Carrea e Michele Gismondi.
In Ettore c'era davvero il sunto della storia coppiana: era il suo compagno di camera, il suo consulente primario in corsa, con la morte di Serse, il congiunto a cui destinava le confidenze, i tormenti, la richiesta spesso celata di conforto che ogni uomo, anche il più grande o più forte, raccoglie come brezza. Era colui che possedeva la licenza, per la sconfinata fiducia del capitano, di fare le sue veci quando le corse vivevano i segmenti propedeutici agli acuti, quando i suoi consigli e le sue impressioni erano come i rapporti sulla Bianchi di Coppi. E fu Milano a dire a Fausto, dopo aver passato diversi minuti a conversare con Hugo Koblet al raduno di partenza della Bolzano-Bormio del Giro d'Italia 1953, che lo svizzero gli era apparso stanco, come non avesse riposato e che secondo lui, se attaccato sullo Stelvio, sarebbe crollato. Cosicché Coppi, sulla mitica montagna, attaccò e fece suo un Giro praticamente perduto a sole due tappe dalla fine. Ma in Ettore Milano c'era pure il sunto del ciclismo di quei tempi che sembrano lontani, oltre i confini di albe e tramonti passati, per diversità che si sono mosse ancor più velocemente rispetto ad altre discipline. C'era il gregario che doveva portare acqua al capitano (anche se su questo compito, il principale riferimento della Bianchi, era Carrea), quando la presenza di bottigliette di plastica era fantasia, le borracce erano due e non andavano gettate, ma riempite e nel segmento di corsa, né moto, né ammiraglie erano provviste di contenitori. Si apriva una ricerca empirica, dove fontane e bar erano le mete, sempre difficili per le resse, le attese, il nervosismo che subentrava e le complicazioni nel doversi trasformare in uomini gonfi di acquoso bottino, posto all'interno di borracce d'alluminio chiuse con tappi di sughero. Si correva in mezzo a strade dove l'asfalto bello e liscio era raro, perché il ruolo di "fondo padrone" se lo giocavano lo sterrato, o il fratello povero del bitume più nobile: quello che s'impregnava di brecciolino ghiaioso che alimentava le sofferenze dei tubolari, raccogliendo un suono tanto simile a quello dei giradischi del tempo, al cospetto del vinile. Si pedalava su biciclette pesanti, con telai di metallo ferroso, ben lungi dall'acciaio leggero di due decenni dopo e con cambi di poche velocità possibili, dove salvare la gamba con l'agilità, era esercizio che oggi potremmo definire di potenziamento. Ed era un cambio sul telaio, non sincronizzato, che s'azionava con un processo lungo rispetto all'attimo di oggi, incontrando più facilmente quel salto di catena a causa delle vibrazioni imposte dallo stato delle strade. Il gregario umile, era un grande atleta intriso di fatiche abnormi, costretto praticamente sempre a giungere in tempo massimo, senza quel gruppo rete complicatissimo da formare; senza quelle ammiraglie a cui agganciarsi perché quasi sempre davanti e senza il conforto di sapere, attraverso le comunicazioni odierne, se era il caso di risparmiarsi un poco. Si doveva dunque correre sempre a tutta, col solo aiuto di qualche spinta sulle salite e di qualche generoso disponibile a rinfrescare lo sforzo nei giorni di grande calura, con getti d'acqua da quei pesanti secchi del tempo, a volte pure finiti addosso a codesti sontuosi esempi di fatica sui pedali. Non era più il ciclismo dei "forzati della strada", così intensamente raccontato da Londras, ma ci andava molto vicino. Ed un gregario, anche se cinquantesimo, finendo la corsa, aveva fatto un'impresa. Un acuto richiesto, sempre. Già, uno dei tanti motivi per i quali leggere il grande romanzo del ciclismo, solo sugli albi d'oro, rappresenta un esercizio scarso ed ingannevole. Quegli umili che si ricordano per gli echi dei loro capitani, erano campioni. Così campioni da emozionare il sottoscritto già uomo maturo, mentre li incontrava anziani, a volte sconosciuti ai più, o legati all'unisono come fossero accessori delle vittorie di chi è divenuto idolo.
La storia di Ettore Milano, non può stare tutta nel comunque grandioso ruolo di "Angelo di Coppi", c'erano quelle fatiche parzialmente raccontate sopra a garantire le sue autoctone grandezze e c'erano quelle specificità notevoli, che si determinano alla constatazione della lunghezza del suo tratto di vertice accanto al Campionissimo. C'erano le qualità di un atleta, che ha mantenuto alto il suo rendimento, nei pori di un ciclismo allora immensamente più complicato, pur nella semplicità dei rapporti all'interno dell'ambiente, per la personalità magari meno parlata o narrata dei campioni che riempivano gli albi d'oro di quella epoca. E c'erano per Ettore pure le fortune, nate non per raccomandazioni, ma per meriti e qualità, di essere entrato presto nella "scuola di ciclismo" di Biagio Cavana, il divenuto cieco che vedeva e leggeva attraverso i muscoli degli atleti le loro qualità e che le affinava non solo col valore di quelle che erano vere e proprie massoterapie, ma attraverso lo studio sull'alimentazione, ed una metodologia negli allenamenti tanto davanti alla media dell'epoca. Con la "S.I.O.F" di Cavanna, di cui divenne genero sposando la figlia Ada, Milano vinse le sue più grandi corse da dilettante: due volte la Coppa Italia, una cronosquadre di 120 chilometri, nel '47 con Carrea, Giacchero e Parodi e, nel '48, con Carrea, Giacchero e Fossati, nonché, a livello individuale, la Coppa Boero '48. Sempre con Cavanna si determinò, sin dall'esordio professionistico nel 1949, una peculiare pedina della Bianchi di Coppi, dove, a livello personale, andò a segno cinque volte: la tappa di Napoli al Giro d'Italia e il Circuito di Cremona, nel 1953; la Nizza-Monferrato dietro derny (che taluni riporti scambiano per la cronoscalata de La Turbie), nel '55; il GP Vallorbe in Svizzera e il Circuito di Asti, nel '56. Corridore potente, passista veloce, al netto del tanto altro che sapeva svolgere nella mitica Bianchi, alto 1,79 per 74 kg, Ettore Milano chiuse sette volte il Giro d'Italia (1949 27°, 1950 51°, 1951 28°, 1952 44°, 1953 27°, 1954 41°, 1955 58°) e tre volte il Tour de France (1949 51°, 1951 50°, 1952 51°). Le sue squadre: la Bianchi dal 1949 al 1956, la Carpano-Coppi nel '57 e la Asborno-Frejus nel '58. Chiusa la carriera sulla bicicletta, salì subito sull'ammiraglia, già nel '59, guidando la Tricofilina Coppi, che annoverava nelle sue file, oltre al leggendario Fausto, anche quel Federico Martin Bahamontes, il quale, proprio quell'anno, vinse il Tour de France. La lungimiranza, unita al buon senso, all'astuzia e a quella simpatia che così fortemente avevano inciso sulla carriera di Ettore da corridore, si trasformarono in un incredibile motivo di professionalità e competitività al timone delle sue squadre future: la Carpano dal 1960 al 1964; la Sanson dal 1965 al 1966 e la Zonca, dal 1970 al 1979. Compagini vincenti, sempre protagoniste, capaci di esaltare i valori dei singoli. Proprio nel più pieno spirito di Milano ciclista. E poi, per chi scrive, allora bambino, ragazzetto e ragazzo, c'era sempre, davanti alla TV, il fascino di quell'uomo, sovente col berrettino da corridore in testa, che rispondeva a De Zan, o Martellini, o Martino, col rassicurante buon senso che distingue quelli che sanno, dai confondenti. Non era poco, per cementare la passione di un giovane verso lo sport su quel mezzo di fatica e bellezze. Ed oggi, da ormai anziano, quel ragazzo si sente più fragile: sono rimaste poche le persone come Ettore Milano. Gli sia lieve la terra.
Articolo inviato da: Maurizio Ricci (Morris)
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