Una storia di talento - Gianni Motta

Sulle rive dell'Adda, in una famiglia che aveva fatto dei campi il presente e il futuro, dopo lo scampato pericolo della guerra e della perdita di quel sangue sempre conduttore nell'arco della più mostruosa delle nostre idiozie, il maggiore di due biondi figli, a suo modo senza strappi evidenti o troppo urtanti l'antropologia di quel nucleo, cercava la sua strada d'elevazione. Le scuola vissuta più come un obbligo che per passione, era riuscita col suo multicolore raggio, a lasciargli richiami che voleva coltivare. Erano echi indotti, ma sufficienti per fare di quel biondino che cresceva filiforme, un ragazzino vivace, brioso negli epigoni, perfino virtuoso negli interessi. S'era così avvicinato alla fisarmonica imparando a suonarla sì bene da finire nella banda paesana, ma non era quello strumento sufficiente a dissetarlo nei confronti della musica e, ben presto, il giovincello, aggiunse il suono di quella tromba che gli permetteva assoli forse più gratificanti. Insomma un biondino pepato, quanto basta per far vedere che aveva capacità d'apprendimento ed idee tali, da farne un evidente di ricerca, ma pure con piedi a terra ben poggiati, perlomeno per le risultanze che dimostrava. A quattordici anni, quando l'indole lavorativa s'era tradotta in lui come una necessità per forgiare i distingui, era riuscito a trovar posto, ad una quarantina di chilometri dalla sua frazione, proprio nell'imponente Milano, in un'industria dove facevano i panettoni e tanto altro fra gli zuccheri di base. Già, proprio quei dolci che voleva imparare a fare, forse per essere in linea col suo agnomen uguale a quello dell'azienda, o forse perché li trovava terreno per svariare, fantasticare su nuove variabili, inventare. S'appoggiò così alla bicicletta, unico mezzo utile ed efficace per percorrere quella strada che separava la sua casa di Groppello, dalla sede dell'industria, in quel di Milano. E così, ogni giorno, sabato incluso, su quel mezzo di color blu che papà gli aveva comprato usato, si copriva di quei quaranta chilometri che, dalla sua cascina, attraverso Inzago e Gorgonzola, lo portavano al portone d'ingresso d'un luogo di lavoro che l'inebriava per quei profumi sentiti quando ancora le case della città erano gli acuti d'orizzonte. Un tratto che ripercorreva ugualmente la sera, un po' più stanco, ma ugualmente contento per le verifiche che gli donava. Già, perché per strada, trovava sempre qualcuno che con lui voleva battagliare a colpi di pedalate, e lui, il biondino, una fama se l'era già fatta, visto che ai cartelli che fungevan da traguardi forzatamente improvvisati, vinceva sempre. Una notorietà che s'allargò facilmente e quando l'età raggiunse il minimo, 17 anni, gli echi trasportati dai coinvolti più anziani e battuti, raggiunsero il patron d'una squadra che era la consorella giovanile e dilettantistica della più forte nel ciclismo da leggenda. Un gran nome, che fu ben lieto di donare una maglia da corsa a quel filiforme biondino dal motorino nei pedali. Inutile dire che il ragazzino fece presto a tradurre, anche nella bici col manubrio dalle curve basse, la sua bravura. Tante vittorie ed una fama che si lasciò andare alle tinte di campione. Stupivano, il suo passo armonioso, la pedalata rotonda e quello scatto che teneva in serbo per lanciare azioni, quasi sempre autentiche lame per gli avversari. Ma lui, il protagonista, ben sapeva che bisognava restare attenti a non sciuparsi, perché quel suo ciclismo era solo un'area di speranze e non serviva spendersi troppo. Era lucido il giovanotto, sapeva ciò che voleva, al punto di mandare a quel paese le sirene spacca muscoli su sfondi azzurri che gli piovevano addosso. A modo suo, continuava a provarsi in parallelo alle gare: attendeva il grande salto, l'unico a giustificare l'abbandono del posto di lavoro. Lo faceva creandosi confronti e prove vissute col piglio di chi sa dove vuole arrivare, senza paure o semplici timori, seguendo le voci del cuore e delle gambe, i suoi motori.
Il 19 ottobre 1961, due giorni prima della "classica delle foglie morte", corsa vera e per professionisti, "Gamba Secca", il più forte scalatore italiano ed uno dei primi tre del mondo, decise di provare il percorso che l'avrebbe aspettato 48 ore dopo. Si portò su una salita non lunga, ma ripidissima con punte al 25%, di cui l'anno prima aveva stabilito il record di scalata: un'erta che chiamavano "Muro di Sormano" e che si annunciava come fulcro anche di quella edizione della classica autunnale. "Gamba Secca", voleva verificarsi e capire dove la sua notoria andatura di camoscio, potesse affondare un fendente per distanziare gli altri e, magari, involarsi verso la vittoria. Ad un certo punto ebbe la sensazione di essere seguito da vicino da qualche collega, ed un tornante glielo confermò. Dietro di lui, con una maglia che portava una scritta già leggendaria, "Faema", un giovincello biondo lo seguiva a ruota, era arrivato lì con passo felpato come un gatto. Il campione sì infastidì subito, ed istantaneamente in lui si fecero largo tante domande, che spingevano un'unica risposta: togliersi di mezzo quell'intruso biondino. "Gamba Secca" attaccò come se alle sue spalle ci fossero già i grandi di due giorni dopo. Lo fece deciso e con veemenza, ma un altro tornante gli fece capire che il ragazzino, aveva bellamente digerito il Muro e la sua azione. Incentivò lo sforzo come fosse avvolto dalla disperazione della gara della vita, ma ancora una volta il suo scatto, non provocò cedimento nell'irriverente giovane. Non fece in tempo a voltarsi per chiedere a quel demonio chi fosse, che questi partì di scatto. "Gamba Secca" richiamò tutto quel che aveva per tenergli la ruota in quei pochi metri che li separavano dalla cima del Muro di Sormano. Lo scollinamento arrivò come una liberazione, per il campione. Il biondino si voltò e disse: "Massignan?" "Sì sono Massignan, ma tu chi cavolo sei? "Sono Gianni Motta!" - rispose il giovincello che aveva appena finito la stagione riservata alla sua categoria: gli allievi. Due giorno dopo, il Giro di Lombardia, in arte ciclistica "la classica delle foglie morte", vide "Gamba Secca" Massignan, ritoccare il primato del Muro e giungere secondo, piegato allo sprint da un abruzzese dalla lingua lunga, di cui si diceva un gran bene: Vito Taccone.
Articolo inviato da: Maurizio Ricci (Morris)
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