Leo Castellucci

Una uomo sorridente, ma silenzioso e pragmatico. E' questa l'impressione che m'ha lasciato ogni volta che l'ho incontrato. Anche da atleta era così, perlomeno da quello che gli altri han detto di lui. Forse proprio questo suo carattere, dopo una carriera dilettantistica giunta perfino al tricolore, l'ha spinto a preferire il ruolo sicuro di gregario, piuttosto che curare le sue possibilità, col rischio di trasformarle in velleità. Già, perché, per uno come lui, con quel passato, raccogliere solo due vittorie da prof, nonostante giornate di gran valenza, stona un po' troppo con la motivazione di quella semplice flessione che in un atleta, per carità, è assai comune. Il sospetto che ci fosse dietro una sua scelta, dunque, resta. Ciononostante Castellucci è stato un signor corridore
Cominciò a correre nel 1944 con l'Associazione Sportiva Forlì, come allievo, evidenziandosi per le sue azioni da ottimo scalatore e per una certa combattività. Passato dilettante all'interno delle file della Forti e Liberi nel 1946, cominciò da subito a collezionare vittorie su vittorie col fare del ciclista di razza. Soprattutto il suo piglio diveniva letale quando le corse si facevano tirate e le salite anche non trascendentali divenivano difficili. Ma il 27 luglio 1946, diede a Leo ed a tutta la Forlì ciclistica una grande soddisfazione: al campionato italiano, Castellucci, di fronte a più di duecento partenti, sbaragliò il campo, vincendo di forza in perfetta solitudine, dopo aver lasciato Luciano Maggini, secondo, a 5'20" di distacco. Il suo crescendo e la maglia tricolore addosso, gli valsero l'inserimento nella ristretta cerchia degli azzurrabili per i campionati mondiali di Zurigo. Poi, quando la partecipazione alla gara iridata sembrava cosa fatta, all'ultimo momento, il CT Cristiani, optò per l'inserimento in squadra di Annibale Brasola, relegando il forlivese al ruolo di riserva. Nel 1947, corso sempre con la maglia della Forti e Liberi, Leo si riconfermò. In aprile, finì secondo d'un soffio dietro a Baronti nella Coppa Azzini di Modena, ma pochi giorni dopo vinse alla grande la Bologna-Raticosa. Nel corso della stagione poi, superò tutti sulle strade di casa, nella Coppa Arcangeli, indi fuori regione vinse il Trofeo Ursus a la Modena-Abetone. A Torino però, nell'indicativa per i campionati del mondo, una caduta gli tolse le speranze di entrare nella formazione azzurra. Per la sua intraprendenza, le ottime doti di scalatore, ed un più che buono senso tattico, Gino Bartali lo segnalò alla Legnano e, con quella maglia, Leo Castellucci passò al professionismo nel 1948. Nella massima categoria rimase cinque anni, assolvendo positivamente il ruolo di gregario al servizio di Bartali (Legnano), Volpi e Schaer (Arbos), Martini (Welter). Partecipò a quattro Giri d'Italia: 1948 (29°), 1949 (ritirato), 1950 (30°), 1952 (72°). A livello personale, ottenne numerosi piazzamenti e due vittorie: nel Trofeo Cirio a Napoli (1949) e nella tappa di Alleghe del Giro delle Dolomiti (1950). Lasciò il ciclismo nel 1952, ma rimase vicino allo strumento amato, aprendo un negozio di cicli che ha condotto fino alla pensione.
Articolo inviato da: Maurizio Ricci (Morris)
©2002-2023 Museo del Ciclismo Associazione Culturale ONLUS - C.F.94259220484 - info@museociclismo.it - Tutti i diritti riservati

I dati inseriti in archivio sono il risultato di una ricerca bibliografica e storiografica di Paolo Mannini (curatore dell'Archivio). Le fonti utilizzate sono svariate (giornali, libri, enciclopedie, siti internet, archivi digitali e frequentazioni sui vari Forum inerenti il ciclismo). Chiunque desideri contribuire alla raccolta dei dati, aggiunta di materiale da pubblicare o alla correzione di errori può farlo mettendosi in contatto con Paolo Mannini o con la Redazione.

Preferenze Cookies - Privacy Policy