I ricordi di Guglielmo Pesenti, grande ciclista degli anni '50

Intervista giornale LA SVEGLIA

I ricordi di Guglielmo Pesenti, grande ciclista degli anni '50 ed ex allievo negli anni della guerra

LA BICICLETTA L'HO VOLUTA IO


Tifosi e avversari lo ricordano bene, quando mordeva la pista dei velodromi con una grinta che non lasciava scampo. Era l'uomo degli scatti brevi e potenti, dei 500 e dei 200 metri al fulmicotone. Ma anche il raffinato stratega degli sprint, delle sfide vinte con tanta astuzia, con quelle "finte" che piantavano il rivale lì, sulle ruote, o lo sbilanciavano facendogli sentire tutta la durezza della pista.
A tutti coloro che hanno i capelli bianchi, e di sport s'interessano almeno un pochino, il nome di Guglielmo Pesenti richiama un mondo di ricordi e forse di nostalgie. Nostalgie e ricordi di un'epoca
d'oro del nostro ciclismo, quando le "Sei Giorni" attiravano il pubblico come le mosche e le gesta
nei velodromi appassionavano giornalisti e tifosi quasi quanto le grandi corse su strada.
Guglielmo Pesenti la bicicletta l'ha nel sangue. Suo padre Antonio, leggendaria figura di scalatore, vinse fra l'altro il Giro d'Italia del 1932. Anche il figlio ha vinto tanto, ma quasi esclusivamente sulle piste. Quattro record del mondo sui 200 e sui 500 metri, pista coperta e scoperta. Medaglia d'argento alle Olimpiadi di Melbourne del 1956, velocità sui 1000 metri. Terzo ai Campionati del mondo del '56 e secondo nel '57. Cinque volte campione italiano, due volte nella velocità e due nel tandem, più un titolo invernale da professionista nel '57: senza contare i tanti "gala" e "gran premi" della pista vinti in tutta Europa.
Ma la passione di Guglielmo Pesenti per la bicicletta era nata parecchi anni prima, già ai tempi in cui studiava al "Sant'Alessandro". Da "convittore", cioè da interno, Pesenti ha frequentato in Collegio le ultime tre classi delle elementari, quindi la prima e la seconda media. Alla "Petteni" ha poi conseguito la licenza media; quindi un paio d'anni di istituto tecnico alla "Esperia". Già allora era chiaro che la grande vocazione di Guglielmo Pesenti era lo sport. A diciassette anni entrava nel giro azzurro e quasi subito arrivarono le vittorie, i record e la definitiva consacrazione tra i grandi velocisti.
"La Sveglia" l'ha intervistato nel suo negozio di Bergamo, dove un'intera parete è tappezzata di quadri, medaglie e ricordi di due carriere sportive: quella di suo padre e la sua.
Che cosa ricorda dei suoi primi anni di scuola?
"Ho cominciato le elementari al mio paese, Sedrina. Allora nelle scuole di provincia si stava tutti in
un'unica classe, grandi e piccoli, così che non si poteva imparare molto. Per questo dopo due anni la
mia famiglia mi ha mandato in città, al "Sant'Alessandro".
Nel '41 ho cominciato con la terza, e purtroppo l'ho dovuta ripetere.... Allora si bocciava sul serio! Era giusto, non avevo la preparazione, ma come ho detto non era colpa mia. Alle scuole pubbliche di allora ti seguivano sì e no; invece in una scuola come il "Sant'Alessandro" i professori ti "stavano dietro", se necessario mandavano a chiamare i genitori e raccomandavano loro: "Guardi che il ragazzo ha bisogno di questo e di quell'altro". Così ho ripetuto la terza, ma le classi successive le ho fatte bene".
Com'era l'ambiente del Collegio?
"Purtroppo non ricordo più molto di quegli anni. Mi pare che il Rettore fosse allora don Tamanza (in realtà mons. Biava, n.d.r.). Tra i docenti ricordo con affetto soprattutto il vecchio professor Traini, che insegnava francese. Credo che mi abbia voluto molto bene e a questo proposito vorrei raccontare un piccolo episodio che ancora mi commuove. Una volta incontrai il professor Traini fuori della scuola e naturalmente lo salutai. Non pensavo mi avrebbe risposto, perché era vecchio e praticamente cieco. E invece, con mia sorpresa, mi riconobbe dalla voce e si fermò a parlare con me.
Un altro docente cui ero affezionato era don Ravasio, anche se non ricordo più che materia insegnasse.
Quelli passati al "Sant'Alessandro" sono stati per me anni belli, ma non posso dimenticare che erano anche gli anni della guerra. In Collegio non abbiamo mai sofferto la fame, ma soprattutto negli ultimi tempi a tavola il menu era diventato un po' troppo monotono. Solo da questo ci accorgevamo che c'era la guerra".
Era già allora appassionato di sport?
"Lo sport, tutto lo sport, mi affascinava fin da bambino; e fin da allora avevo una gran voglia di cimentarmi nelle varie discipline. Credo che il successo della maggior parte degli atleti si spieghi con il fatto che sono loro a desiderarlo, a "sentirlo". Questo vale specialmente per la bicicletta: uno sport duro, fatto di allenamento e fatica. Lo sport individuale è sempre più duro dello sport di squadra. Di conseguenza se vai, vai; ma se non vai non c'è nessuno che ti spinge. Tanto più in pista".
La bicicletta è stato il suo primo amore, o c'era qualche altro sport che avrebbe voluto praticare?
"A scuola facevo tutti gli sport possibili e immaginabili - pallavolo, pallacanestro, atletica - ma avevo sempre in mente il ciclismo. Vorrei dire però che non è stato mio padre, né nessun altro, a
impormelo. Ero io che volevo andare in bicicletta.
Mi sarebbe piaciuto anche fare atletica: nelle corse brevi, da velocista, perché non avevo molta resistenza ma avevo scatto. Da ragazzo giocavo pure a pallacanestro, e il professore di educazione fisica mi diceva che ero dotato, mi incitava a continuare. Nel mio cuore c'era però sempre soprattutto il ciclismo".
É possibile conciliare lo studio con la pratica sportiva a livello agonistico?
"Per me a un certo punto è diventato impossibile. A diciassette anni sono entrato nel giro azzurro e ho cominciato a girare il mondo: un mese a Parigi, poi da un velodromo all'altro, gli allenamenti.... Di conseguenza: o studiavi o facevi sport. Allora era così, purtroppo. Adesso vedo ragazzi che corrono in bicicletta e riescono a diplomarsi, facendo naturalmente dei sacrifici. É una bella cosa.
Il livello culturale dei ciclisti d'oggi è molto superiore rispetto a quelli di una volta: un po' perché la scuola - siamo sinceri - è diventata più blanda, più facile; un po' anche perché oggi ci sono mezzi, come il computer, che ti aiutano a studiare meglio e più in fretta.
Noi ciclisti abbiamo sempre avuto la nomea di quelli che... "ciao mamma, sono arrivato primo"... Ai tempi era proprio così. Mio padre aveva fatto la terza elementare, a otto anni è rimasto orfano di papà e mamma e appena possibile - a tredici o quattordici anni - si è messo a fare il corridore. Io ho
lasciato la scuola abbastanza presto, ma ho cominciato a diciassette anni a girare il mondo. E posso
dire di essermi fatta un po' di cultura anche senza studiare".
Nel '56 lei fu convocato per le Olimpiadi di Melbourne e vinse la medaglia d'argento nella velocità. Come andò quell'avventura?
"Si, è arrivata la medaglia. Ma quando uno ha un carattere come il mio non si accontenta di sentir dire che è "andato sul podio". Io ci sono andato sul podio, ma ricordo che non ero assolutamente
felice! Che contava per me era solo quello che ha vinto!
Allora vinse un francese, Michel Rousseau. In quella circostanza sono stato sfortunato: ma devo ammettere che quell'anno Rousseau era fortissimo.
Medaglie a parte, un'Olimpiade è molto diversa dai Campionati del mondo o da qualsiasi altra gara.
É il clima, l'aria che si respira ad essere eccezionale. Credo che anche solo parteciparvi sia la cosa più bella che ci possa essere per un atleta. Naturalmente poi se ottieni dei risultati è meglio...
Posso dire di aver vissuto veramente queste mie Olimpiadi. A Melbourne siamo arrivati per primi, quando il Villaggio olimpico non era ancora inaugurato ufficialmente e siamo partiti quando non
c'era più nessuno, dopo 40 giorni di Australia.
Era la prima volta che si costruiva un villaggio destinato a ospitare gli atleti di tutte le nazioni.
Vivere insieme con tutti gli atleti del mondo, di tutte le specialità - c'erano tutti, all'infuori dei
velisti e dei canottieri - è stata un'esperienza straordinaria.
Al Villaggio il ristorante italiano era naturalmente il più frequentato. Ci venivano anche gli atleti delle altre nazioni e ci si trovava prima e dopo le gare. Ho ancora in mente Emil Zatopek, il famoso
"uomo cavallo", ormai alla fine della sua carriera, che non stava mai fermo un momento e andava sempre di corsa. Mi ricordo un cestista russo alto due metri e trentacinque, Krumin, che era sempre insieme a un vie tnamita alto un metro e sessanta. Che coppia!
Tra gli italiani ricordo soprattutto Carlo Pedersoli - sarebbe diventato famoso come Bud Spencer -
iscritto per nuoto e pallanuoto e Cesare Rubini, che faceva sia pallacanestro sia pallanuoto. Di Bergamo eravamo in tre: io, Gianfranco Baraldi - l'attuale Assessore allo Sport, che faceva gli 800
e i 1500 metri di atletica - e Rino Lavelli, che correva i diecimila metri e la maratona".
Le amicizie nate in quei giorni si sono poi mantenute nel tempo?
"Nell'ambiente italiano c'erano già prima delle Olimpiadi, e molte si sono conservate. A livello internazionale invece l'ambiente è troppo vasto perché possano nascere amicizie durature. Ci si conosce, ci si frequenta, ma è normale che ci si perda di vista. Non è detto però...
Qualche giorno fa ho incontrato a una serata il presidente della Federazione russa di ciclismo. Mi ha
detto: "Pesenti, io e te abbiamo corso insieme le Olimpiadi e diversi Campionati del mondo"!
Questo signore aveva all'incirca la mia età. S'era ricordato di me quando alcuni imprenditori bergamaschi nel settore dell'abbigliamento sportivo erano andati in Russia per affari e avevano parlato con lui. "Ah, Bergamo - aveva detto - ah sì... Pesenti, quello che mi ha fatto imparare a correre".
Io mi ricordavo solo di una gara a Leningrado. In finale eravamo io e due russi, e loro erano finiti in
terra tutti e due. Erano caduti per colpa loro, perché io stavo alla corda e non potevano passare da
quella parte. Avevo bene in mente l'episodio, ma non il nome del mio avversario, Leonid Khemel.
Solo quando me l'ha detto mi sono ricordato di aver corso con lui".
Come mai si è dedicato alla pista anziché alle gare su strada?
"Direi che è stata la pista a scegliere me. Agli inizi io correvo su strada e vincevo. L'ultimo anno che ho corso su strada, delle ultime sei gare ne ho vinte cinque e la sesta sono arrivato secondo.
Il destino era però in agguato... Ero andato a Milano, al "Vigorelli", per partecipare al "Trofeo dei principianti della pista", gara riservata a giovani che non avevano mai corso in pista. Era il '51. Ho
vinto una delle prove, sono andato in finale e ho vinto ancora. Combinazione, in tribuna c'era il Commissario tecnico della pista: mi ha visto, preso in squadra e portato un mese a Parigi, perché in
Italia non c'era ancora un velodromo d'inverno, al chiuso. Così sono entrato nel giro azzurro. Ho ottenuto subito dei risultati e ci sono rimasto.
Adesso non posso dire che, se avessi continuato a correre su strada, avrei vinto il Giro d'Italia.
Penso di no, perché le salite non erano il mio forte, anche se mi difendevo: forse avrei potuto essere
il Cipollini della situazione, cioè un buon velocista. Ma dovevo scegliere, perché la preparazione per la pista è totalmente diversa da quella per le corse su strada".
Che cosa ha provato quando ha battuto i record del mondo sui 200 e i 500 metri?
"Non c'è niente da fare: sapere di essere il primo del mondo in qualcosa ti inorgoglisce tantissimo.
Poter dire: "Io sono il migliore del mondo" ti dà una carica incredibile, ti convince che sei forte. E nella velocità, si sa, conta anche la testa. La "Gazzetta dello Sport" aveva scritto allora: "Pesenti ha
raggiunto la maturità atletica e psichica".
Quando sono passato professionista, volavo... perché ero sicuro di quello che facevo. Andavo e non
"potevo" arrivare secondo. Avevo la mentalità vincente. Una convinzione che aiuta molto anche nello studio, nel lavoro, in tutte le cose".
Ma per la velocità contano di più i muscoli o la "testa", cioè la tattica, l'astuzia?
"Adesso anche la velocità è basata soprattutto sulla forza. Ai miei tempi era soprattutto il senso tattico a fare la differenza. Ricordo il povero Marino Morettini, bergamasco anche lui: era fortissimo, e sarebbe andato bene adesso perché aveva molta potenza. Però io lo battevo quasi sempre perché lo "imbrigliavo", lo fermavo. Come forza era più forte lui, ma io vincevo tatticamente. Non lo lasciavo partire, e lui lo scatto secco non l'aveva. Così, se lo frenavi un pochino, lo chiudevi - cose lecite e normalissime nella velocità - non scattava e quando tu partivi restava indietro.
Lui invece andava in progressione: e se partiva in testa, se gli facevi fare la sua corsa, era dura
andarlo a prendere. E infatti ha vinto un Campionato del mondo, il primo che ho corso anch'io, a Zurigo nel '53".
Il ciclismo dei suoi tempi era un ambiente migliore o peggiore di adesso?
"Migliore, senza dubbio. Lasciamo perdere la questione doping: quello che fa più impressione è che
oggi i corridori quasi non si parlano, si "odiano" letteralmente. Una volta anche lo spirito delle gare
era molto diverso.
Prendiamo me e quel francese, Rousseau. In pista ci "scannavamo", sportivamente s'intende. Ma poi si saliva in macchina insieme, si parlava, si scherzava e si andava a correre da un'altra parte. Quando eravamo di nuovo in pista ci si "scannava" ancora. E così accadeva anche fra italiani.
Però quarant'anni succedevano anche cose che - raccontate oggi - sembrano quasi incredibili".
Che cosa per esempio?
"Le racconto un fatto che è accaduto a me. Avevo detto alla televisione delle cose che non andavano dette, e per questo i "papaveri" della Federazione mi volevano escludere dai Campionati del mondo. Io però continuavo a vincere e non sapevano come fare per mandarmi a casa".
Cosa aveva detto di così grave?
"Per carità, nulla... A Roma avevano appena costruito il nuovo velodromo per le Olimpiadi del '60 e io avevo dichiarato: "Bell'impianto davvero, ma non è adatto per i velocisti perché non ha curve molto sopraelevate". Mamma mia, non l'avessi mai detto! Guai toccare il velodromo delle Olimpiadi! L'hanno presa molto male e volevano togliermi di mezzo a ogni costo; e hanno trovato una scusa qualsiasi Pur di non farmi correre i Campionati.
Qualche sera fa mi sono trovato con il velocista che era andato al mio posto, Giuseppe Ogna, un
bresciano. Non gli avevano detto perché mi avevano mandato a casa: lui pensava a un fatto tecnico.
Mi ha però confessato che era rimasto stupito della decisione perché stavo andando proprio forte".
Come era la vita di un corridore quarant'anni fa?
"Per molti aspetti era bella; comunque molto dura rispetto a oggi, anche se per i tempi si guadagnava già abbastanza bene. Ricordo quando svolgevamo gli allenamenti collegiali: i dilettanti
per le Olimpiadi, e noi per i Campionati del mondo dei professionisti. Stavamo alle Frattocchie,
vicino a Roma, ed eravamo in un convento di suore. Figurarsi che vita!
Dal '53 al '56 abbiamo fatto gli allenamenti collegiali a Dalmine. Ma noi corridori non stavamo in
albergo: si dormiva nelle scuole di Sforzatica, dentro in sei per ogni aula. Lasciamo stare me che ero uno dei giovani, ma c'erano Antonio Maspes che era campione del mondo, Antonio Bevilacqua pure campione del mondo: eppure anche loro s'adattavano a vivere come ragazzini in collegio. Altri tempi!
Negli anni '80 sono stato per qualche tempo il Commissario tecnico della pista. Portavo i miei corridori nei grandi alberghi, ma si lamentavano lo stesso per una cosa o per l'altra.
Bisogna proprio dirlo: non c'è più il senso del sacrificio. Una volta noi passavamo giornate su e giù
dai treni con la bicicletta in mano: la caricavamo in carrozza e via! Che vita! Ogni tanto trovavi qualcuno che ti diceva che la bicicletta nel vagone letto non la potevi caricare. E allora dovevi
scendere, spiegare...
L'aereo si prendeva solo per trasferte molto lunghe: per la Russia, per l'Australia... Ricordo che a furia di scali ci abbiamo messo tre giorni per raggiungere Melbourne. Adesso invece si viaggia sempre in aereo, e alle bici c'è qualcun altro che ci pensa".
Che cosa potrebbe fare oggi la scuola per aiutare la pratica sportiva dei giovani?
"Secondo me potrebbe fare molto. Se prendiamo i ragazzi fin dalle elementari, e proviamo con lo sport a distoglierli dai rischi e dalle brutture del mondo d'oggi, facciamo sicuramente qualcosa d'importante.
Tutti i ragazzi sono attratti dalla vita, e purtroppo anche dai suoi aspetti peggiori: ma se li impegni
in uno sport che li può appassionare, insegni loro anche a vivere in una società, in un gruppo, e
soprattutto li tieni lontani da certi pericoli: la droga, la delinquenza...
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I dati inseriti in archivio sono il risultato di una ricerca bibliografica e storiografica di Paolo Mannini (curatore dell'Archivio). Le fonti utilizzate sono svariate (giornali, libri, enciclopedie, siti internet, archivi digitali e frequentazioni sui vari Forum inerenti il ciclismo). Chiunque desideri contribuire alla raccolta dei dati, aggiunta di materiale da pubblicare o alla correzione di errori può farlo mettendosi in contatto con Paolo Mannini o con la Redazione.

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