Fiorenzo Magni (1920-2012)

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Pubblicato da: Galliolus | lunedì, 31 dicembre 2012

Gareggiare con quei due diavoli è stata una grande fortuna. Devo ringraziare Coppi e Bartali, che mi hanno insegnato a perdere.
Il ciclismo, più che uno sport, è un omaggio alla fatica. Gli appassionati lo sanno, e rispettano la fatica di tutti, dal primo all'ultimo: anche perché spesso il primo non è il migliore, e quasi sempre fa meno fatica dell'ultimo. Un giorno Gianni Mura chiese al povero Marco Pantani perché andasse così forte in salita: «è un modo per abbreviare la mia agonia», fu la laconica risposta.
È allora naturale che proprio nel ciclismo l'epico gesto del perdente sia cantato più che in altri sport: la cotta micidiale, la crisi di fame, Saint Malo, la pipì di Gaul, la volata di Bitossi, i 12 secondi di Baronchelli e gli 8 di Fignon, il Gavia e il Bondone, Malabrocca e la Maglia nera — un premio che non ha equivalenti, anche il cucchiaio di legno ha tutt'altro significato. I francesi hanno saputo farne un vero e proprio genere letterario: dallo sfortunato Rivière a Virenque, passando ovviamente per Raymond Poulidor, che sul concetto di eterno secondo ha pazientemente costruito una carriera.
Fiorenzo Magni è la dimostrazione dell'assunto di cui sopra: tutti a ricordare come fosse impossibile vincere contro i formidabili avversari che ebbe la ventura di trovarsi di fronte. Eppure — alla salute di quei ripetitivi giornalisti che ancora oggi continuano a definirlo Il Terzo Uomo — Magni vinse, e vinse moltissimo. Tre Giri d'Italia: solo Binda, Coppi e Merckx hanno fatto meglio. Tre Giri delle Fiandre consecutivi: nessun altro è stato altrettanto bravo su quei maledetti muri. Per una curiosa coincidenza, il Leone delle Fiandre può vantare altre terne: tre campionati italiani, tre Trofei Baracchi, tre Giri del Piemonte.
Non vinse mai il Tour de France. Nel 1950 i giornali svolazzavano, i francesi, ehm... insomma: Bartali nel 1948, Coppi nel 1949, un terzo italiano non se lo potevano proprio permettere. Gli azzurri — allora si correva per squadre nazionali — avevano già vinto cinque delle prime dieci tappe, accolti con fischi e anche con qualche ortaggio da parte dei tifosi francesi, che però potevano consolarsi con la maglia gialla di Bernard Gauthier. All'undicesima tappa, Bartali vinse e Magni prese la maglia. Alla dodicesima tappa, sull'Aspin, spuntarono i bastoni. Bartali fu irremovibile: nonostante le suppliche notturne di Goddet, tornò a casa. Binda, allora commissario tecnico della nazionale, ritirò tutta la squadra. Magni obbedì, anche se molti anni dopo gli ho sentito dire: «uno si ritira se muore!».
Nel 1956, al suo ultimo Giro, cadde in discesa a Volterra, giungendo a Livorno con una clavicola fratturata. Il giorno dopo si arrivava a Lucca, una cronometro facile e piatta, bastò una fasciatura elastica. Da Lucca a Bologna, su e giù per gli Appennini, fu molto più dura: non riusciva a frenare, usò i piedi e consumò diverse paia di scarpini. L'indomani c'era la cronoscalata fino al santuario di San Luca, e non ce l'avrebbe fatta senza l'idea del suo fidato meccanico, il mitico Faliero Masi, che smontò un tubolare, ne estrasse la camera d'aria e la legò al manubrio: Magni avrebbe pedalato tenendo l'altro capo del tubolare tra i denti. Funzionò, anche se non ci crederebbe più nessuno senza le fotografie; funzionò, ma bisognava ritornare sull'Appennino e scendere a Rapallo. Cadde di nuovo, si ruppe l'omero e svenne per il dolore: si risvegliò sull'ambulanza e si ricordò che sarebbe stato il suo ultimo Giro, e che uno si ritira se muore. Si fece riportare in corsa e tenne duro, manubrio tra i denti, per le tappe successive, arrivando anche secondo nella tappa dello Stelvio; certo, in classifica generale era molto lontano dalla maglia rosa di Fornara.
Poi venne il giorno del Bondone.
Era l'otto di giugno, ma la montagna è così: se capita la giornata storta, non c'è bella stagione che tenga. Partenza da Merano, cinque colli da scalare: Costalunga, Rolle, Gobbera, Brocon e Bondone. Sul Costalunga iniziò a piovere. Gaul era già in fuga, ma nessuno ci fece caso: era ventiquattresimo in classifica con più di un quarto d'ora di ritardo. Nella discesa seguente l'acqua e il sudore cominciarono a ghiacciare sulle schiene dei meno previdenti; ai piedi del Rolle cominciò a nevicare. Il vento gelido tagliò le gambe a molti: chi non si era già ritirato, cominciò a cercare rifugio nei casolari e nei fienili. Per gli altri, l'inferno. Le donne scendevano in strada offrendo un po' di brodo caldo ai dannati. Alcuni furono recuperati nei boschi circostanti: scarsa visibilità, strada sdrucciolevole, mani congelate impossibilitate a frenare, qualche grappino di troppo. Sul Brocon non bastarono le ambulanze per portar via gli assiderati, furono i giornalisti a dare una mano con le auto al seguito. A Trento si fermarono quasi tutti, compreso Fornara che non aveva voluto mai cambiarsi la maglia rosa, ridotta ormai a un'armatura di ghiaccio. Partiti in 86, solo 41 corridori arrivarono in cima al Bondone, dove il termometro segnava -4 °C. Primo Gaul, che saprà di aver preso la maglia rosa solo alla sera, in albergo; secondo Fantini, terzo Magni a quasi un quarto d'ora. Una tappa regolare, anestetizzato del gelo: grazie a quella tappa, chiuderà il Giro al secondo posto.
Appesa la bicicletta al proverbiale chiodo, continuò ad essere un vincente. Già negli ultimi anni da corridore aveva mostrato una mentalità imprenditoriale: sua è l'idea che lo sport potesse vivere anche grazie agli sponsor pubblicitari. Un'idea decisiva per la sopravvivenza di tutti gli sport contemporanei, ma soprattutto del ciclismo, dove gli spettatori non pagano il biglietto. Fu vincente come dirigente sportivo e come imprenditore, ma credo che la cosa migliore che ci lascia — forse quella di cui egli stesso era più orgoglioso — sia il Museo del Ghisallo. Un santuario, più che un museo.
Più di una volta mi sono sorpreso a sognare che avrei donato la mia maglia gialla a quel museo. Certo, poi non ho vinto il Tour de France, ma questa è un'altra storia.
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